Lealtà (Ultima parte)

Racconto di Salvatore Conaci

Moira osservò il quadro, e non poté che cedere a un pianto furioso. All’inizio si sentì sciocca, usata, distrutta. Tutti attesero, per lunghi secondi, la sua reazione, e quella non tardò ad arrivare. Era stata illusa; si era trovata al centro di un’enorme e crudele commedia; aveva tradito; e aveva sofferto. Ma aveva vissuto qualcosa di tanto bello e forte da non poter essere rinnegato in alcun modo. Non poteva, non riusciva a odiare Hermes, né a pentirsi fino in fondo di nulla. Capì, in un istante, che in realtà, se si trovava al centro di quella tragica recita, era solo perché qualcuno l’aveva considerata protagonista.

E quel qualcuno era proprio quell’uomo al quale si era abbandonata senza esitazione, né ritegno, né vergogna. Si girò verso Hermes, con quegli occhi che avevano il potere di parlare solo a lui, poi, senza nemmeno schiudere le labbra, gli fece una domanda. E, di quella domanda muta, Hermes sentì perfettamente ogni sillaba, e le rispose ad alta voce: «Sì! Sì! L’ho fatto per te! Solamente per te! E l’ho fatto perché ti amo! Perché non ho mai amato nessuna, e non voglio amare nessun’altra al mondo fino all’ultimo, insensato battito di questo mio stupido cuore!».

Nessuno l’aveva mai amata fino a una simile follia, pensò. Nessuno. Mai. In quella manciata di secondi, aveva capito che l’amore non era accontentarsi. Non era accomodarsi al posto più vicino e attendere la fine dei giorni oziando nella morte interiore del compromesso. Aveva capito che l’amore poteva esplodere come un cannone anche in uno sguardo, e che poteva crescere fino a prendere le sembianze di un gesto folle, forte, estremo. Soprattutto, aveva accettato che una tale complessità non doveva essere capita, ché a certe volontà del cuore si doveva cedere e basta, senza riserve. Si buttò tra le sue braccia, ed Hermes la strinse. La strinse tanto da poter sentire i loro cuori battere insieme. «È questo che voglio! È te che voglio!», gridò commossa.

«Benissimo, me ne andrò con la tua testa, vile!», gridò Bastian, agitando la spada. Hermes spinse via Moira, e affrontò il rivale. Un calcio veloce e preciso, e la spada cadde a terra. Moira corse a recuperarla, ma Bastian fu più veloce: un lampo; un guizzo; un urlo. L’uomo aveva piantato la lama nel petto di lei prima ancora che qualcuno potesse anche solo tentare di frenarlo. Hermes sentì il cuore fermarsi, e fermarsi il mondo, e il maledetto intero universo. Moira raggiunse il pavimento con la grazia di un fiocco di neve, e allo stesso modo si spense nell’istante in cui toccò il suolo. Non c’era speranza, neanche la più esile: l’aveva persa per sempre, un attimo dopo averla avuta. Gli occhi vitrei, Hermes si diresse disarmato verso il suo nemico. Leila riconobbe subito quello sguardo. Urlò, lo chiamò, lo trattenne con tutta la sua forza, ma lui era già altrove.

Lo raggiunse. Bastian non poté fare altro che tentare un fendente. Il colpo andò a vuoto. Hermes lo colpì sul volto con un pugno tanto violento da strappargli via parte della guancia sinistra. Quello cadde all’istante, coi denti esposti in un macabro, tetro ghigno di morte. Il silenzio fu assoluto ma breve. Hermes si chinò su quel corpo ormai incapace di reagire: un secondo pugno fece rientrare il naso dell’avversario all’interno del cranio; un terzo fece esplodere l’occhio destro. Gli spasmi delle gambe di Bastian, ormai morente, scioccarono Leila, che implorò il suo amico di fermarsi. Si sentì trafiggere dal senso di colpa per aver partecipato a un gioco delle vite dall’inatteso esito tragico. Non doveva andare così, si ripeteva. E lo pregò disperata. Provò a ostacolarlo in ogni modo. Non si era offerta per il massacro di due innocenti, ma per incoraggiare un amore. Doveva fermarsi. Glielo doveva. Lei era stata comprensiva con lui, gli aveva concesso il suo aiuto, e ora si aspettava lo stesso trattamento. La vita di quell’uomo doveva essere risparmiata. Almeno quella. Hermes, però, non si fermò. Non finché Bastian non smise di respirare sotto i suoi colpi. L’aveva usata e ignorata. L’aveva resa partecipe di un crimine violento e ingiusto. Senza uno straccio di considerazione, di comprensione. E così, non rispose più di sé, Leila. Non ci pensò che qualche secondo. Prese la spada e, appena quello che era stato suo amico si voltò per piangere Moira, gli si scagliò alle spalle. Non ebbe neanche il tempo di decidere dove colpire: i sette alani, veloci e feroci come sette angeli del male, irruppero nella biblioteca, avventandosi su di lei. La smembrarono orribilmente ancora prima che Hermes potesse capire. E, quando lui capì, vide che la sua vita, la sua intera e tormentata vita, non aveva più alcun senso.

Moira non c’era più. Leila, l’unica sua vera certezza in un mondo di ambiguità, aveva tentato di ucciderlo per vendicare uno sconosciuto, e pagava con la vita il prezzo di quel tradimento. Si scostò i capelli dal volto, imbrattandosi del sangue dell’uomo che aveva appena ucciso. «Niente è vivere senza il morire», disse ad alta voce, in preda allo smarrimento. Si gettò sul pavimento, strinse Moira più forte che poté, e senza smettere di baciarla urlò l’ultimo comando ai suoi cani: «Voglio andarmene con lei!». Non servì altro.

Il primo tra gli alani guaì, si agitò, pianse una lacrima che, cadendo al suolo, risuonò come il temporale che si era appena scatenato fuori dal castello. «Niente è vivere senza il morire», sussurrò all’orecchio di Moira, prima di chiudere gli occhi, sorridendo.

I cani, magnifici simboli di quella famiglia maledetta, soffrirono, ma poi seppero cosa fare.

E lo fecero.

Post correlati