Lealtà (Settima parte)

Racconto di Salvatore Conaci

«Il vostro fidanzato odia i libri, ma voleva venire con noi. La mia biblioteca non è per chiunque; è per chi ama la letteratura. È per persone come voi, Moira…», proruppe all’improvviso Hermes, quando furono lontani, attendendo scaltro la reazione di lei. «Oggi è una giornata così emozionante! Parlatemi di cose belle, di poesie, delle vostre pagine mai lette da nessuno!», rispose lei. Sembrava impossibile, sembrava fin troppo perfetto per essere vero, ma accadeva sul serio: li aveva separati, aveva fatto venire a galla le loro gravi divergenze, e ora camminava accanto a lei, nei corridoi del castello; e lei non attendeva altro che ascoltare le sue poesie. Sentiva il suo odore, i contatti occasionali con la sua spalla, e fugaci parvenze di complicità. Pensò di trovarsi nel sogno più fisico che avesse mai vissuto fino ad allora. Gli tremarono le gambe, ma procedette convinto. Per lei, avrebbe aperto volentieri un suo libro di rime dinanzi a qualcuno che non fosse la sua Leila.

«E mi raccomando, ora che vi siete chiariti, non tornate ad azzuffarvi in mia assenza!», esclamò il medico, andandosene dopo essersi occupato del ginocchio di Leila, e dopo aver messo pace tra i due. Lei sorrise maliziosa; l’altro la imitò. Restarono soli, mentre il crepuscolo donava, poco a poco, i più magici colori notturni ai locali del castello. «Dovremmo cercare Hermes e la mia fidanzata. Quella persona non mi piace. Venite, chiamiamo qualcuno che ci possa guidare», disse lui, facendo per alzarsi dalla poltrona accanto al massiccio divano sul quale giaceva la ragazza. Leila lo sorprese con uno scatto repentino, e andò a sedersi sulle sue gambe, divaricando le ginocchia. «Andate di fretta, dottore?», sussurrò poi, esibendo un fascino fino a quel momento inedito, lo stesso che aveva sempre alimentato le dicerie maliziose della gente sulla sua fantomatica relazione con Hermes. E proprio a Hermes pensò per un istante, per darsi la forza necessaria. Lo immaginò baciare Moira con passione. Lo pensò felice, con Moira abbandonata languidamente tra le sue braccia potenti. Le si accapponò la pelle, e si sentì pronta. Accostò la sua bocca al collo di Bastian, e gli si concesse senza pudore. Lui non oppose alcuna resistenza. Si unirono in un unico corpo. Là, sulla poltrona del salone ormai abbandonato da un Sole che pareva non volerne più saperne di quella storia. Ansimarono quasi ringhiando, ventre contro ventre, come se avessero trattenuto a stento, fino a quel momento, quella loro attrazione da animali. L’inizio fu un attimo, ma il proseguimento ebbe il lungo e tormentato incedere di ore e ore.

«Dimmi, infine, e sii sincera!
Dimmi, donna, una sol cosa:
è forse falsa, o fu sì vera
quella croce d’una rosa,
che ti colse e non fu colta,
nei sospiri d’una volta? …»

La notte era oscura e perversa anche nella biblioteca. Hermes recitava l’ennesima poesia avvolto dalla nebbia di un antico incenso inebriante, dalle origini misteriose. Un incenso di cui il sovrano di una terra lontana gli aveva fatto dono in occasione di un esclusivo e chiacchierato ricevimento al castello. Moira aveva perso ogni contatto con la realtà. Ascoltava, immersa in un’enorme e vaporosa poltrona, e si nutriva di quei versi in una posa comodamente sinuosa, come una seducente serpe che bevesse avida dalla migliore delle sorgenti. Lui recitava, e la guardava dritto negli occhi. Recitava, e gesticolava, e Moira non sentiva che lui, e non riusciva a guardare che le sue grandi mani fendere l’aria fumosa. Era sedotta. Rapita nel corpo e nella mente. I versi, l’incenso, gli occhi di Hermes. Tutto ruotava e si mescolava a un ritmo ormai insostenibile. Un ritmo che indeboliva le sue difese di attimo in attimo. I versi, l’incenso, gli occhi. Ancora e ancora. Finché non le fu più possibile resistere: si alzò senza preavviso, gli si accostò lentamente, e lo guidò giù di schiena, sulla robusta tavola di marmo alla quale lui era appoggiato. Il grosso volume che Hermes stringeva in mano cadde rumorosamente sul pavimento, mentre la lingua di Moira torturava la sua pelle con la lama più tagliente tra tutte: il piacere lungamente atteso.

Il fragore provocato dal libro si fece strada per corridoi, cunicoli e camere d’aria. Arrivò dove non sarebbe dovuto arrivare, e interruppe Leila e Bastian quando ormai era buio pesto, riecheggiando come lo schiocco di un illusionista alla fine di un’ipnosi. Nell’ala più nascosta e buia del castello, il primo dei sette alani tese il collo, si tirò sulle zampe, e ringhiò al vuoto, mostrando i canini.

Leila, nel frattempo, correva ad accendere il lume più vicino: una tremenda ingenuità.

La luce illuminò una parete altrimenti isolata e invisibile, adornata con due spade incrociate, sotto alle quali campeggiava un fedele e colpevole ritratto di Hermes insieme con la sua amatissima amica. Bastian guardò i volti e la data sul dipinto, e poi Leila. «Ma chi siete, davvero, voi due? Cosa volete da me e da Moira?», chiese quasi senza fiato, prima di lasciarsi scappare un’imprecazione. Preso dall’ira, afferrò il ritratto e una spada: «Avrete quello che meritate!», sibilò. Leila corse verso la biblioteca, ansante, inseguita dall’uomo che reclamava giustizia. In poco tempo, tutti e quattro si ritrovarono nella stessa stanza. Hermes e Moira si separarono velocemente, con violenza.

«Tu, maledetto! Avevi architettato tutto. Avevano architettato tutto, Moira, capisci?!», urlò l’uomo, lanciando il ritratto ai piedi di Hermes, così che Moira potesse avere la schiacciante prova sotto gli occhi.

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