Lealtà (Seconda parte)

Racconto di Salvatore Conaci

Aveva chiuso i cancelli, e aveva ordinato a tutti i domestici di non farsi vedere, di non avvicinarsi alle stanze e ai salotti dei piani superiori fino al giorno seguente, nemmeno se avessero sospettato della sua morte. Non sopportava che qualcuno sentisse le note di dolore, e intuisse la sua improvvisa fragilità. La sua reputazione di cinico, invulnerabile giovane erede doveva restare intatta. Il giro aristocratico era tagliente e spietato, e lui era solo. Per lo meno, credeva di esserlo.

Per via di un’oscura tragedia familiare, dieci anni prima, appena quattordicenne, era divenuto l’ultimo esponente di una potente stirpe. Una nobile casata antica e temuta. Si era subito dimostrato all’altezza del ruolo a cui la vita lo aveva obbligato, e, nonostante le numerose insidie, era rimasto al suo posto, mantenendo intatti i possedimenti di famiglia, e muovendosi saggiamente negli affari come su una scacchiera. Neanche le corteggiatrici di circostanza erano mai mancate, dalle più appassionate alle più subdole, ma lui non era mai caduto in quella che aveva sempre considerato la trappola infida dell’amore. Si era solo circondato di amici fidati, di consiglieri e buoni collaboratori. Aveva selezionato una squadra silenziosa e concreta. Una squadra vincente. Così aveva preservato la sua posizione, la sua fama. E così era cresciuto a dismisura il suo carisma. In soli dieci anni, il ragazzetto dei Degli Alani era diventato un uomo rispettato e temuto, narrato come una leggenda che in pochi incontravano davvero. Il suo nome veniva pronunciato con riverenza negli ambienti più raffinati e nei sobborghi più viscidi e pericolosi, associato a storie prodigiose e inquietanti. Passionale e leggero lo era solo coi suoi cani, i suoi sette alani: un’intera cucciolata acquistata un paio d’anni prima come omaggio allo stemma di famiglia. Il branco scorrazzava in libertà nel parco e nel castello, facendo della tenuta un luogo più sicuro e paventato. Hermes aveva addestrato quei cani perché fossero amichevoli e protettivi coi lavoratori e con gli animali del castello. Perché potesse avvicinarsi chiunque altro, invece, era necessaria la sua approvazione. Gli alani leggevano le intenzioni più celate del loro padrone, nella stessa maniera in cui Iddio stesso doveva leggere il cuore degli uomini. Un legame formidabile, che sfuggiva alla comprensione dei più abili allevatori e cultori di quella razza. Uno dei motivi per cui la gente temeva Hermes erano proprio quegli ubbidienti, enormi cani. Quelli, certamente, ma anche il suo temperamento, e l’alone di oscurità che gli aleggiava attorno.

Ora non voleva accettare di perdere quell’infrangibilità che gli era sempre valsa il rispetto di tutti. Non voleva accettare di aver perso la voglia di tutto, finanche di stare nella sua immensa e antica biblioteca, a leggere e scrivere fino a notte fonda, come faceva fin da bambino. Detestava che nulla fosse più amabile della straziante contemplazione di quella donna irraggiungibile.

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