Lealtà (Prima parte)
Racconto di Salvatore Conaci
Un salone marmoreo. Il calore di un grande camino. Le note di un pianoforte, liberate nell’aria come un pianto al tramonto.
La pioggia sferzava lo sterminato parco che circondava il castello dei Degli Alani. Il rombo incessante dell’acqua era il maestro e l’armonia. Pioveva dal cielo, dal pianoforte, e pioveva dal cuore del suonatore, mentre le sue dita impazzivano disperate, sulla tastiera ubbidiente.
All’improvviso un tuono, e poi un lampo accecante. Un sussulto di nervi, a denti stretti. I pugni, di colpo ignoranti, colpirono i tasti senza grazia, e dallo strumento si levò un tetro lamento che finì per stridere lungo le pareti, per poi disperdersi verso un soffitto irraggiungibile. Una folata fece ululare i finestroni, e dal portone del salone, alle spalle dello sgabello, irruppe una corrente che spense l’unica candela adagiata sul coperchio del piano. Fu il silenzio. Fu il buio.
Hermes Degli Alani rimase solo con la sua disperazione rabbiosa. Non chiamò Leila, la governante, sua dolce amica, perché riaccendesse la candela e si occupasse, magari, anche di quelle del lampadario. Rimase seduto, la testa tra le mani e la fronte sui tasti, vinto dal dolore. Niente, niente al mondo aveva più importanza, da qualche tempo. Nulla al mondo che non fosse Moira. L’aveva incrociata giorni prima nella piazza giù al paese, in occasione della fiera, e con un solo sguardo fugace e casuale lei gli aveva trafitto l’anima. In un battito di ciglia, gli era apparsa ed era sparita nella folla, sconvolgendo ogni suo senso. In quegli occhi, ne era convinto, lui aveva visto tutto, e tutto gli era piaciuto, e tutto, adesso, desiderava. Stravolto da quell’insolita e violenta alchimia, e conoscendo poco la gente del paese, Hermes aveva subito chiesto di lei ai suoi uomini più occulti e fidati.
Da allora, da quel fortuito sguardo, era stato vano ogni tentativo di dimenticarla, di amare altre donne, di dormire e addirittura di mangiare. Lui voleva Moira, con quei suoi occhi finemente intagliati da chissà quale mano divina, e quelle labbra, che labbra non erano, ma proiezioni carnali di petali di rosa. Voleva Moira, coi suoi capelli scuri, striati di chiaro come fantastico marmo venato d’oro. Ogni particolare di lei era una ferita. Una ferita che nessun altro, nessun’altra, poteva curare. Aveva preso a frequentare più spesso le vie del paese con l’unica speranza di rincontrarla, e proprio durante la mattinata da poco passata l’aveva vista passeggiare con un altro uomo. Sorrideva, lo guardava negli occhi, gli parlava attendendo impaziente le sue risposte, e seguiva fedele ogni suo passo, senza neanche badare a dove mettesse i piedi: sembrava felice. Felice con una persona che la teneva per il polso, e che si faceva seguire, anziché seguirla anche in capo al mondo. Felice di una felicità nella quale Hermes non aveva alcun ruolo. Di colpo, le sue viscere si erano aggrovigliate come serpi in amore, e l’animo gli si era guastato senza rimedio. Distrutto, era tornato al castello.