Le radici nel cielo. La poesia di Angelo Lippo

Le radici nel cielo. La poesia di Angelo Lippo

Recensione di Ginevra Amadio

Sfogliando Le radici nel cielo (Bertoni editore), vasta rassegna delle opere poetiche di Angelo Lippo, il lettore si trova in un luogo familiare, visto da dietro le quinte. Difficile non riconoscere i tratti di quello che nella nota al testo Simone Giorgino definisce «un Sud da vivere tutto al presente», nel tentativo di fissare un’immagine, di indagare pasolinianamente la “differenza” custodita nella lingua e nelle tradizioni.

Questi versi, che coprono un ampio arco temporale (dal 1963 al 2011), citano a piene mani i grandi numi meridionali: Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Vittorio Bodini, Rocco Scotellaro. Ogni lirica è conseguenza di un debito esplicito, ma la voce di Lippo conserva una sua unicità, un timbro limpido e dolente capace di colmare lo scarto tra le parole e le cose, di stabilire un rapporto pieno di reazioni tra la sua anima poetica e certi aspetti del quotidiano. È la natura il fulcro di quest’opera tramata di mare e vento, di un’aria salmastra insidiata dalle polveri dell’ILVA, a indicare il cortocircuito che segna la città di Taranto, baluardo di antica grazia («Taras / vi alitò sopra / e la incoronò / Regina dei due Mari») e al tempo simbolo di una modernità divorante («La mia città ha un cuore tenero / anche se produce acciaio»).


Il ricorrere ossessivo di certi elementi (le gravine, i calanchi, e ancora i fichidindia, le carrube) svela la necessità di testimoniare quanto, almeno a livello subcosciente, lo spirito non può accettare: l’idea che il presente sia una terra di reliquie, e che la vita – destinata a spegnersi – possa essere apprezzata, accolta, unicamente tramite bagliori, nelle pieghe di una natura che serba ancora il sacro. In questa prospettiva il genere poetico si configura per Lippo come l’agente di una ricerca di senso volto a esprimere la sacralità dell’esistenza via via incarnata nella ciclicità della natura, nell’atemporalità del mito, nell’astorica alterità del Mezzogiorno.

Così si legge in Dov’è la bianca valle d’Itria:
Dov’è la bianca valle d’Itria
e nella notte sacra ai divini furori
i ranuncoli filtrano all’agreste
liuto dei fiumi scorrenti la pianura,
solitaria tu cammini fra la folla
e porti a tracolla la tua pesante bisaccia
di sogni. Ma nessuno ti canta,
nessuno svuota i calici d’angoscia
che ti colmano le ore. Gli atti
più semplici ti appartengono, sono tuoi;
ma la vita sembra ormai ignorarli.
Così, tristemente ti pieghi e trascini
fasci di legna sui suoi monti vergini
aspettando che qualcuno ti renda suo.

Il moto umano, laddove avviene, sfocia in quadro dove la vita della terra “canta”, in contrasto col silenzio del tempo e con i «calici d’angoscia» che simboleggiano lo scarto, l’incomunicabilità tra individui soggiogati dalla modernità. Qui emerge la lezione pasoliniana, che travalica il nostalgismo e tocca semmai la politica, quella funzione di opposizione alla cultura neocapitalista.

Nell’intervista a Jean Duflot del 1969 (Il sogno del Centauro), il poeta friulano parla infatti di perdita del sacro, della sostituzione di questo con l’ideologia del benessere, del potere, a sottolineare il cambio di passo della civiltà borghese, quella capacità di abradere la memoria di un passato mitico, in qualche modo ancora umano.

È quanto Lippo riprende, ponendo la Puglia al centro della sua geografia poetica e assegnando al versare il compito di r-accogliere ciò che resta, quanto appare altro rispetto all’ordine livellante: «le farfalle arabescano cieli / il muschio profumato / cancella i torpori della notte».

Non tragga in inganno, dunque, la semplicità dello stile; ogni immagine esplode, vibra, e nel verso libero – più che nei settenari e negli endecasillabi – si svela la manifestazione del sacro, un inno alla vita oltre i “detriti”, oltre i carcami della modernità.

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