Le gambe delle donne

Un racconto di Antonella Perrotta. Buona lettura.

“Settantasette” urlò Saverio, il pescivendolo, nel pescare il numeretto dal sacchetto della tombola.

E fu un coro di: “Le gambe delle donne.”

E a tutti s’illuminarono gli occhi, neanche le avessero per davvero davanti, quelle gambe. Immaginaria visione. Porta del cielo.

“Ma che deficienti. Du’ gambe, so’. Ossa, pelle e carne, quando poca, quando troppa” avrebbe risposto Teresina, la levatrice, che pure di gambe s’intendeva.

E, invece, no.

Perché le gambe delle donne sono come un libro chiuso che non vedi l’ora di sfogliare, prima, e di tuffartici dentro, poi. Dritte, storte, sode o cellulitiche, fanno l’andatura, ché nessuna è più femmina di chi cammina da femmina. “La camminata è importante. Sgrazia e aggrazia” diceva sempre Alfonso Campobasso, il titolare del negozio di calzature “Un passo alla volta”, nel suo lessico personale. E, a suo modo, aveva ragione.

Basti pensare a Luisa Barbieri, la barista, che aveva un passo da camionista e le caviglie di chi è affetto da gotta. Ecco, nessuna calzatura era in grado di “aggraziarla”. Nessuno fantasticava sulle sue gambe. Ma a lei poco importava. “Sono bella uguale” diceva. Agli altri e a se stessa. E non per voler convincere, ma perché ne era convinta.

Su quelle di sua sorella Vera, invece, c’era da farci un film e niente era più inverosimile del finale, considerato che a Vera, di quelle fantasie, poco e niente importava. “E che le fai vedere a fare le gambe, allora?” le chiedeva più di qualcuno, scarpe grosse e cervello pure, riferendosi alle minigonne che era solita indossare. “Perché mi piacciono” rispondeva lei altezzosa, senza lasciare intendere se fossero le minigonne o le sue gambe a piacerle o, magari, entrambe. Perché, diciamolo, solo una donna sa.

C’era, poi, Assuntina Capotosto. Lei le sue gambe le postava sui social sotto il profilo “Venere”. Gambe sulla spiaggia oliate come alici fritte, gambe umide di salsedine sulla battigia, gambe pronte a calarsi in piscina, gambe che danzavano, gambe fasciate da tute stretch sul tapis roulant, gambe fra le frasche e i papaveri rossi, gambe su tacchi dodici e mai con le infradito che ingrossano la caviglia. Lo sapeva, Assuntina, che le sue gambe piacevano, più dei suoi occhi marrone-slavato, stesso colore di un cane randagio. Una donna, sa. Perciò, le postava. D’altronde, era l’unica soddisfazione della sua vita banale sapere che gli uomini sulle sue gambe fantasticavano e pure assai. Significava che fantasticavano anche su di lei, ché le sue gambe erano la sua persona. Gambe e anima, per Assuntina, erano equivalenti.

C’erano le controindicazioni, però. Ci sono sempre quando si ha a che fare con gli uomini-muli, intendendosi per tali quelli che camminano su un percorso già tracciato senza discostarsene e senza avere la minima idea di come si possa farlo. Quelli che indossano il paraocchi e non come accessorio, ma come capo basic. Ecco, con loro bisogna prestare attenzione, ché non si sa mai cosa potrebbero capire, immaginare, pensare, anche fare, di fronte a quel gamba più gamba.

Mentre, solo una donna sa.

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