L’anatomia della sirena. Simone Delos e le strade del cuore
Recensione di Riccardo Sapia
Sono un’infinità le volte in cui mi chiedo perché, perché accadono certe cose, perché se ne dicono altre, perché non si lascia parlare di più la testa, perché, invece, non ci si lascia condurre dal cuore. Perché? Potremmo dire che la nostra esistenza è suddivisa in due fasi, esattamente speculari l’una all’altra, scandite da due diversi pronomi interrogativi. Il primo, che cosa?, è finalizzato alla conoscenza oggettiva e alla innata voglia di sapere, e connota la nostra giovinezza; il secondo, perché?, appartiene all’età “adulta”, intesa come l’età della consapevolezza, e implica il nostro bisogno di comprendere, per capire e, eventualmente, giustificare. Il più delle volte, purtroppo, le domande rimangono senza risposta, come qui, come nel caso de “L’anatomia della sirena”.
Lungo la lettura di questo romanzo sono svariate le volte in cui ci si domanda, appunto, il perché di ciò che accade, fin quando non si scopre ciò che è accaduto precedentemente, e a quel punto ci si comincia a domandare perché sia accaduto tutto ciò. Ma a questo punto dobbiamo tirare i remi in barca e lasciarci cullare dalle onde, onde che, in alcune pagine, diventano cavalloni, preludio di un vero e proprio naufragio.
E allora scopriamo che non tutto può essere compreso, e che ciò che è improbabile non è per forza impossibile, che non tutto è bello, ma anche, che tutto non è necessariamente brutto. E dietro a queste incognite si cela, spesso, l’inenarrabile, ciò che probabilmente non si saprà mai, ma di cui se ne subisce per sempre l’onta. Come Febo e Diana, vittime dell’ignoranza e frutto della violenza. Cresciuti, ciò nonostante, col senso di colpa e nella solitudine più assoluta senza neanche il conforto dell’essere gemelli. E proprio lì sta il problema, l’avere condiviso un’esperienza che li ha “solcati” per sempre e di cui, paradossalmente, se ne vergognano. Ma la vita, si sa, va sempre e comunque avanti, nel senso letterale del termine. Ci precede, e noi, come tanti soldatini, ci lasciamo vivere, come loro quando vengono costretti da un pugno di adulti depravati a partecipare a sordidi giochi, dove i vinti sono vinti perché non posseggono armi con cui difendersi, non hanno alternative. E loro, precocemente consapevoli di tutto ciò, si abbandonano al gioco perché questo è ciò cui si sentono destinati:
«Tu non hai chiesto e hai ricevuto. Ci sono persone che nascono per dare, magari è quello il loro ricevere, oppure sono destinate a non ricevere mai nulla. Ma questo sono. E non possono cambiare le cose, non le vogliono cambiare.»
Questo è il sentimento che, anche quando non espresso, pervade l’intero romanzo. Un ineluttabile destino cui non ci si può sottrarre. I personaggi si muovono quasi come degli automi, appaiono amimici, celano nella loro quasi assenza di espressività un vissuto inconfessabile che l’autore con grande abilità ce lo introduce nelle prime pagine senza quasi più parlarne, “vestendo”, però, il resto delle pagine del libro di un velo di tristezza.
Febo e Diana, come tutti coloro che fanno l’esperienza del baratro, tentano di rifarsi una vita. Ma sarà attraverso il loro riavvicinamento che troveranno, anche e forse, in maniera fortuita, la via della “redenzione”:
«Niente, vieni qua vicino. Ora ascoltami bene… la vita fino a oggi è andata com’è andata. Siamo arrivati alla fine di questa strada di merda. Adesso siamo in bilico davanti a un precipizio… possiamo buttarci di sotto, oppure girare e prendere l’altra strada. Io ora questo non te lo so spiegare, ma possiamo cadere da soli, ognuno per sé, ma se giriamo e prendiamo l’altra via dobbiamo farlo insieme.»
C’è un detto che mi diceva spesso mia nonna che recita “chiodo schiaccia chiodo”. Ciò significa due cose, che per superare un problema ce ne vuole un altro ma anche che la vita, ahimè, è costellata di ostacoli da superare. Sarà, quindi, una “caduta”, un ennesimo trauma, a far sì che Febo riesca a trovare quella luce di cui, forse, non ne ricordava nemmeno l’esistenza. Febo, infatti, non solo risorge ma, probabilmente per mero spirito di conservazione, risorge sgombro di ogni eventuale ricordo che potrebbe risultargli, appunto, ingombrante.
Sono questi gli elementi che, secondo me, conferiscono ritmo alla storia de “L’anatomia della sirena”: riavvicinamento, caduta e, infine, anche l’amore:
«…l’amore altro non è che preferire l’altro a se stessi.»
L’amore di Biancalana, infatti, come un balsamo permette a Febo di diventare l’uomo che è. L’amore che ri-conosce quando è il momento di battere in ritirata e consegnare il testimone a chi avrebbe dovuto averlo sin dalla nascita: Diana, o Artemisia, come nella loro originaria ma rinnegata tradizione greca. L’autore, per introdurci alla storia di Febo e Diana, si avvale della mitologia greca. Sin dalle prime pagine, infatti, ci ritroviamo tra nomi e immagini che hanno abitato le nostre giornate sui banchi del liceo. Immagini come quella della Sirena, simbolo di qualcosa che, attraverso la malia, conduce alla totale perdita della ragione, come in questo romanzo dove la ragione sembra non essere di casa e alla quale l’autore, per assicurare il ritorno alla vita, oppone un’ulteriore perdita, la perdita, appunto, della memoria.