La vita è altrove. Kundera e ciò che resta dell’utopia e della poesia

Recensione di Martino Ciano. In copertina: “La vita è altrove” di Milan Kundera, Adelphi, edizione 1994
“La vita è altrove” scriveva Rimbaud e questa frase può essere letta come una dichiarazione di indipendenza o come una condanna a morte; di sicuro, afferma una negazione: la realtà non è.
Con queste poche parole ecco delineata la personalità di Jaromil, un disadattato che si aggrappa alla poesia, all’arte e al socialismo. Attraverso questi elementi si dà una forma e combatte contro l’angoscia per la morte. Ha paura, come tutti noi, di ritornare a quel nulla primordiale in cui nessuno può essere ritrovato, a meno che non lasci qualcosa di concreto qui, nella Storia.
Quante contraddizioni si muovono in questo ragazzo boemo, frutto di un rapporto fugace tra una donna e un ingegnere. Viene al mondo mentre il Tempo distribuisce da Occidente a Oriente le sue atrocità. Lui cresce negli anni in cui la sua nazione passa dal nazismo al socialismo.
Al suo fianco c’è sua madre, così amorevole e gelosa, e alla quale lui si avvinghia, creando un rapporto intenso, simbiotico, di reciproca dipendenza, che limita entrambi. Lei come donna vorrebbe un amore carnale, lui sente a volte il peso d’essere solo un figlio e di non potere ambire ad altro ruolo.
Ma come detto, la vita è altrove, magari nei sogni e Jaromil è un “uomo-vuoto” che si riempie di “altro”. Per un certo periodo di un suo alter ego di nome Xavier, che lo porta di sogno in sogno, di storia in storia, di sé stesso in sé stesso.
Ecco il romanzo di Milan Kundera, quello che gli editori non volevano pubblicare, perché lo considerarono “debole”. Infatti, parlare di poesia è sbagliato. Nel sistema socialista l’arte anche è reale, si mischia alla quotidianità, edifica l’uomo nuovo, fa dell’utopia qualcosa di concreto. Jaromil è attento a questo aspetto; non scrive versi astratti, ma composizioni estratte dal qui-ora, quindi dall’unico mondo possibile. Sono componimenti lirici, ma pur sempre mondani.
Egli non è come quel pittore che frequentava da bambino, con cui la mamma ebbe una breve storia di sesso, con cui sempre sua madre ebbe modo di rompere quel patto segreto di “amore platonico dalle tinte incestuose” stretto con lui, il suo figlio-poeta. No, Jaromil sogna e compone versi nel ristretto cerchio del regime socialista, non ha tentazioni borghesi.
Ma nonostante questo, lui è e resterà un disadattato. E quando incontrerà l’amore, una ragazza rossa e una avvenente cineasta, che disastri si creeranno nella sua mente, che ambigui tormenti solleticheranno la sua anima. Tutte cose che non avevano diritto di esistere nel mondo socialista. Insomma, Kundera indaga quegli intellettuali di regime che si accontentano di inseguire la Storia, piuttosto che farsene fautori, contravvenendo proprio a quel principio che vuole la Storia come una sostanza che si plasma. D’altronde, qualcuno diceva che la vita dà forma alla coscienza e da questa anche una nuova Storia. Ma come detto, Jaromil è contraddittorio, come coloro che non sanno fare i conti con le proprie nevrosi e con la difficoltà di aderire al reale già dato.
Come in “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, Kundera ci pone davanti a un altro romanzo in cui le “epoche” sono al servizio dell’umanità. E quest’opera uscita nel 1973, ancora oggi ci ricorda che “la vita è altrove”, che ognuno determina nel bene e nel male i suoi e gli altrui passi. Ma ci dice anche che in questa reciprocità, la poesia è un potente antidoto attraverso cui lo Spirito parla. Essa è scandalosa e rivoluzionaria.
Lo capirono Rimbaud, Breton, Majakovskij, Celan e Baudelaire, poeti che troveremo tra queste pagine in cui vengono presi a pesci in faccia gli zerbini delle utopie e delle intellighenzie di ogni epoca.
Se ti è piaciuto questo articolo clicca qui e leggi anche “L’insostenibile leggerezza dell’essere”