La strada in mezzo. Quarta e ultima parte

Racconto di Gennaro Lento

La luce dell’alba sbiadisce l’argento della luna. Dietro la finestra U’ lientu aspira piano l’umidità della notte che sale verso l’alto. Un profumo di erba bagnata gli entra nelle narici. Chiude gli occhi. Lontano sente il canto ostinato di un gallo. Antonia si è addormentata, rannicchiata dietro la credenza. Non si è mossa di un millimetro, le mani a tenersi quel ventre rotondo. Com’è bella, pensa, come sono belle. Pensa che questa bellezza non viene mai per caso, bisogna sapersela meritare, per tutto il tempo che c’è. Pensa a come sarà un giorno la loro vita, se saranno capaci di guadagnarsela ancora questa bellezza. Pensa di sì.

Dall’altra parte della strada i tre uomini respirano lenti, persi ognuno dentro le proprie cose. Canazzu guarda assorto verso il nulla, verso le donne che stanno preparando la cerimonia, verso la figlia che va incontro alla sua vita. Pensa al diavolo dietro la finestra e comprende che è tutto giusto, tutto al suo posto, come dovrebbe essere. Come è. Osserva la luce del sole nascente che bagna d’oro il nulla. L’argento e l’oro. Pensa che è una fortuna vivere in una terra come quella. Pensa che è una condanna vivere in una terra come quella. Si gira, guarda la strada. Adesso posso attraversarla, pensa.

– Dove vai, ti ammazzeranno, – disse piano Antonia, – ti ammazzeranno, – soffiò di nuovo a voce ancora più bassa. Si era appena svegliata.
– Non posso restarmene qui, devo aprire l’emporio. Se non lo faccio adesso resterà chiuso ogni volta che avremo paura.

La guardò negli occhi un’altra volta, prese le chiavi appese al chiodo e aprì la cataratta che portava al piano di sotto. Nel buio del locale poteva distinguere perfettamente l’odore forte delle spezie e delle sementi, mischiato a quello più pungente del formaggio stagionato. Piccoli fasci di luce filtravano attraverso le fessure delle finestre, illuminando vorticosi pulviscoli di polvere impazzita.

Raccolse le forze e aprì il pesante battente della porta. La luce del mattino penetrò con violenza nell’emporio, riversando sopra ogni cosa un biancore accecante. Scese i tre gradini dell’ingresso e fissò la porta alla catena appesa al muro. Adesso mi sparano alle spalle, pensava e pensava anche che non avrebbe mai visto la faccia di sua figlia, perché nella pancia di Antonia c’era una bambina e anche se la vecchia levatrice aveva vaticinato un maschio lui era sicuro che fosse una femmina, forse solo perché era la cosa che più desiderava al mondo e lui non l’avrebbe vista nascere, crescere e diventare una donna come si deve, farsi strada nel mondo, sposarsi, avere dei figli. Pensava che non era giusto ma senza rabbia, quasi con dolcezza. Sentiva già il calore del sole sulla schiena, sarebbe stata un’altra giornata di fuoco. Con lentezza sciolse il laccetto che teneva raccolta la tenda scacciamosche, tornò nel locale e come ogni mattina iniziò a rimettere a posto le cose. Quasi che la liturgia dei gesti quotidiani potesse cambiare il corso degli eventi.

Fu in quel momento che il sole si oscurò e un’ombra nera si allungò sull’impiantito sconnesso del negozio. Canazzu e i suoi scostarono la tenda ed entrarono. Uno degli uomini teneva la mano premuta forte sulla spalla, la faccia bianchissima e gli occhi piccoli. L’altro lo guardava con ferocia, la fascia stretta intorno al suo polso sinistro era rossa di sangue. Canazzu sembrava imperturbabile. U’ lientu girò calmo dietro al bancone. Finalmente, uno di fronte all’altro, i loro occhi s’incrociarono. Immobile U’ lientu, con le palme delle mani rivolte verso il basso, appoggiate al bancone, le braccia dritte. Immobile Canazzu, scolpito nella roccia, il braccio sinistro lungo il corpo e la mano destra agganciata alla cintura dei calzoni. Si guardarono a lungo, dicendosi cose che non avrebbero potuto a parole. Poi Canazzu emise un grugnito che significava buongiorno. U’ lientu rispose al saluto.

– Buongiorno a voi. Vi posso servire qualcosa? – chiese come se avesse avuto di fronte un qualsiasi cliente.
Si spusa fìgljiama, – si sposa mia figlia, disse con voce bassa Canazzu levandosi il cappellaccio e lasciando scoperta una testa di capelli ispidi, – m’abbisogna na zica i rrobba, – ho bisogno di un po’ di roba, aggiunse immediatamente.
Siti u patrùne, – siete il benvenuto.

Iniziò un lento rituale, una messa quieta fatta di poche parole essenziali e di gesti misurati e lunghi. A ogni richiesta di Canazzu, U’ lientu rispondeva con piccoli cenni del capo e poi andava per il locale a preparare la merce, che lasciava impacchettata sul banco. Il ticchettio della grande pendola dietro al banco contrappuntava ogni movimento. Dopo qualche minuto, Antonia scese con attenzione dalla cateratta, mettendosi di fianco al marito e senza dire una parola iniziò ad aiutarlo. Lui la guardò di lato, sorridendo appena. Quando finirono Canazzu fece un cenno ai suoi che tirarono fuori dalle tracolle di cuoio alcuni grossi sacchi di tela grezza nei quali iniziarono a mettere la roba. Poi, con un rapido gesto della mano, sfilò la piccola borsa che portava attaccata alla cintura e ne estrasse tre grosse pietre opache e informi. Erano tre pezzi d’argento.

Avàstanu? – bastano? chiese.
Avàstanu, – rispose u’ lientu.
– Pace?
– Pace.

Allungò la mano destra oltre al bancone. U’ lientu la strinse forte, senza scuoterla, come facevano gli uomini.

– Tanti auguri a vostra figlia e centanni i bona saluta, – disse Antonia guardandolo negli occhi.
Aguri a vua ppì r’a criatùra ca purtàte, – auguri a voi per la creatura che portate in grembo, disse indicando con la testa la pancia di Antonia. – E’ na fimmina.

E sorrise. Una cosa più incongrua non si poteva immaginarla, un sorriso in mezzo a quella faccia nera. Raro e inaspettato, bello come una pietra preziosa, sembrava uno squarcio nella notte. Un lampo rapido che rapido scomparve. Si girò, voltando l’ampio mantello.

Iamunìnne, – andiamo, esortò.

Con i sacchi in spalla li videro attraversare la strada in mezzo e sparire verso il nulla. Antonia si strinse forte al braccio del marito.

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