La sposa

Racconto di Wanda Lamonica

Il piatto non si ruppe. Riso, monete e confetti volarono sul tappeto rosso come coriandoli troppo pesanti. La madre della sposa trasalì, si torturò le mani per qualche secondo. Mangiò il rossetto che Gigliola, la truccatrice, le aveva appena steso sulle labbra sottili. Alcuni invitati, disposti davanti al portone di casa come piccioni in attesa di molliche di pane, mormorarono qualcosa, scambiandosi rapidissime gomitate sui fianchi. Carmela non era mai stata superstiziosa, ma in quel momento avrebbe voluto guardarsi i piedi per sapere di avere ancora la terra a sorreggerla. Ma, nascosti sotto quella campana di organza e tulle, i suoi piedi proprio non riusciva a trovarli. Allora si strinse più forte al braccio di suo padre. Sentì quel profumo così bello, di pini e di mare . Era il profumo delle domeniche a Messa, tutti insieme. Quello di un papà orgoglioso che in una Fiat 127 verde aspettava la sua Melina davanti alle scuole superiori, il sabato mattina.

Il piatto di ceramica giaceva sulla passatoia, lucido e brillante, a far dispetto al mondo per non aver compiaciuto nessuno facendosi fare a pezzi. Fu nonna Leda a risolvere il guaio, come sempre. Come quando, anni prima, era andata dal Tozzo per saldare i debiti di gioco che il figlio aveva accumulato. Impugnò il suo bastone da passeggio e procedette senza esitazione. Recuperò il piatto e andò a scaraventarlo sull’asfalto, qualche metro più avanti. Il piatto si frantumò, finalmente. La nonna brandì in aria il suo scettro in faggio, in segno di vittoria, senza mai perdere l’equilibrio. I presenti applaudirono. Tutto sembrò risolto.

Davanti alla Chiesa, gli altri invitati, con quei loro volti cupi, non sembravano di certo aspettare una sposa. Se non fosse stato per quegli abiti festosi, persino un carro funebre ci sarebbe stato bene, lì.

L’auto d’epoca che accompagnava Carmela arrivò. La piccola Betta, che per mesi aveva provato a farsi i “cannoli” ai capelli, sparse in anticipo i petali di rosa. Poi apparve lei, la sposa. Sui capelli corvini, raccolti in un alto chignon, era adagiato un elegante diadema. La mamma accorse a sistemare il velo e lo strascico. Ovunque sbocciarono fiori di pizzo. La figlia guardò con amore suo padre. Ancora qualche passo e, insieme, avrebbero raggiunto l’altare.

Ma dalla Chiesa sopraggiunse, trafelato, Don Ernesto. Con le dita intrecciate, poggiate sulla casula immacolata. Spiegò che lo sposo non si era presentato. Non se la sentiva. Chiedeva perdono a tutti, ma proprio non ce la faceva. Aveva avuto un crollo. Sì, esattamente “crollo”, aveva detto il prete. Carmela lasciò cadere il suo bouquet di ranuncoli e fresie. Fu un tonfo quasi impercettibile, morbido e straziante. Betta si precipitò a raccoglierlo, il padre della sposa si allontanò con passo deciso. La madre della sposa portò via la sua bambina, lontano da tutti. Le sfilò via i guanti ricamati per stringerle meglio le mani. Carmela pianse in silenzio e lasciò che il dolore l’attraversasse tutta, come un treno in corsa, dirottato nel punto preciso in cui un filo di perle le baciava il collo. Si sfilò le scarpe e piantò saldamente i piedi scalzi sul terreno. Si aggrappò a sua madre: “Scusa”, le disse singhiozzando, “non ho scelto bene”.

Sul sagrato, seduta su un muretto, rimaneva solo un’anziana donna con un sacchetto di riso in mano e il suo bastone, accanto. Stanca di risolvere guai e di fare sempre a botte col mondo.

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