La scuola è finita… finché durerà

Articolo di Rino Garro

Ora che l’ultima campanella è appena suonata al di sopra degli spruzzi d’acqua, degli scherzi e dei canti, tra le urla di gioia degli studenti e quelle strozzate in gola degli insegnanti, so che fra qualche giorno le lezioni già mi mancheranno. E come ogni anno, ormai da molti, mi chiederò che cosa sia la scuola, cosa sia veramente, cosa rappresenti. Questo è il mio lavoro, dirò, quello dei colleghi e di tutto il personale, quello dei ragazzi. Sono le aule, le palestre, gli spazi aperti e quelli chiusi, spesso non adeguati. Sono le lezioni, quelle belle e quelle brutte; anche quelle mancate, durante le quali forse si impara di più. Sono le verifiche e le valutazioni; i consigli, gli scrutini.

Dirò che è anche la ricreazione, soprattutto la ricreazione troppo breve. Sono le entrate e le uscite, le gite di un giorno e quelle più rischiose. Sono giovani che crescono e adulti che invecchiano, colleghi che rivedrò e colleghi che non potranno tornare sul punto di piangere, e tutti a trovare motivi di unione, accordi e disaccordi. Sono le riforme, le proteste, le discussioni in TV e a casa, le cose dette e stradette e non dette. Le famiglie, in più di un caso dimezzate, in là con gli anni; i nonni al posto dei genitori. Dirò che la scuola è la piazza centrale, priva di cancelli che si chiudono; è il duomo di Firenze, gli Uffizi.

Questo è il sangue, venoso e arterioso, che circola per molte ore al giorno, tutti i giorni tranne la domenica e le feste comandate e estive, ma neanche lì dopotutto si ferma mai. La scuola è il cuore che pulsa, sempre, in ogni caso. Sono vite che si legano ad altre vite per anni, forse in modo definitivo, anche quando ciascuna se ne andrà poi per conto proprio. Tutto questo mi dirò tra qualche ora. E penserò che naturalmente c’è altro ancora, quello che verrà in mente ad altri insegnanti, ai ragazzi che leggeranno i quadri, felici o delusi o piangenti; cose belle e cose brutte. Ma ciò che più mi stupirà sarà il fatto che ci avrò pensato solo adesso in modo così chiaro e al contempo confuso, come quando ti senti sommergere da tutta la fatica del mondo non appena tagli il traguardo della maratona. Non è che prima la fatica non la senti, è che devi continuare, devi correre, arrivare. E però è una fatica che ti piace.

La scuola è dunque quello che è e quello che non è, soprattutto quello che si fa già. E può essere divertimento, fantasia; studenti che devono dire e raccontare, dialogare. Così, fra qualche giorno ancora, mi dirò che se qualcosa di questo “piacere con fatica” passa, e rimane, anche fra gli studenti, allora il nostro lavoro ha davvero un senso.

*Articolo già pubblicato per La Repubblica edizione Firenze del 13 giugno 2015

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