La piazza
Racconto di Daniela Grandinetti
È una bella giornata, sono in anticipo. La piazza è ancora vuota, mi siedo a un tavolino del chiosco e prendo un succo d’ananas fresco.
Quando finisco di bere arriva il primo autobus. Mi alzo e mi dirigo all’interno del chiosco. C’è un ragazzo con le orecchie a sventola, i capelli rasati ai lati con una cresta rigida e impomatata che traccia un solco a metà della calotta cranica. Vorrei chiedergli se ha pagato per ridursi in questo stato, ma mi astengo. Gli porgo lo scontrino e le monete. Lui le prende e non ringrazia, io invece sì.
Quando esco gli autobus sono diventati tre e un quarto sta entrando nel parcheggio. La piazza comincia a popolarsi. Dai due ingressi vedo arrivare gruppi di adolescenti, indossano quasi tutti jeans strappati e magliette colorate, masticano gomme, fumano, guardano i display dei cellulari. Spippolano tra i tasti così velocemente che ti chiedi come sia possibile. Dev’essere l’evoluzione della specie.
Dal lato opposto della piazza arriva un altro gruppo: uomini e donne con zaini e tracolle, macchine fotografiche e occhiali, facce sorridenti d’ordinanza.
C’è una giovane donna di colore che mi distrae, proprio in prossimità del marciapiede, sta posando a terra due buste di plastica, ha il petto che si gonfia e si sgonfia per la fatica. Di certo l’affanno di quel respiro, pesante per lei, è benefico per il neonato che ha stretto al seno con una fascia, lui infatti dorme beato. Mi avvicino e le chiedo se ha bisogno di una mano. Lei mi sorride e mi ringrazia, mi dice che il suo autobus non è ancora arrivato. Ha due occhi così neri che se solo li guardi vedi mondi lontani.
L’allegra comitiva che si appresta ad andare in vacanza intanto sta salendo su un autobus viola con delle striature sulle falcate laterali che lo fanno sembrare un razzo che di qui a poco sarà sparato in orbita. Li osservo mentre prendono posto, si chiamano indicando la poltrona vuota accanto, che scegliere il compagno di viaggio ideale è cosa buona e giusta. Sistemano gli zaini in alto e si accertano che il cellulare sia a portata di mano, pronto a immortalare i primi momenti di quella avventura. Sorridono, e per oggi si vogliono un gran bene. Forse è una vacanza premio aziendale, penso, sono piuttosto giovani. C’è una donna in piedi che sta facendo l’appello, qualcuno deve aver fatto una battuta perché a un certo punto lei ride di gusto. Mi piacerebbe sapere cosa l’ha fatta ridere, o forse è solo che mi piacerebbe ridere così come sta ridendo lei.
I ragazzi adesso hanno invaso la piazza, assiepati davanti al chiosco o a bivaccare sui bordi dei marciapiedi, hanno l’aria di fregarsene del tempo, a loro non importa aspettare, quel tempo è comunque un tempo di vita. Qualche coppia si bacia, si stringe. Ci sarà chi avrà da qualche parte un innamorato. Qualcuno non oserà rivelarsi, mentre qualcun altro si starà dichiarando sfacciatamente. Qualcuno soffrirà un rifiuto e qualcun altro farà salti di gioia per un assenso. Qualcuno maledirà i foruncoli dell’adolescenza, qualcun altro invece è lì che esibisce la propria bellezza. C’è sempre una venere, la più bella di tutte, adulata e invidiata.
Strano, penso, non vedo nessuno seduto da solo a pensare, o a leggere un libro, o a scostarsi infastidito dagli altri. Non lo vedo però so che c’è, nascosto da qualche parte, è solo che in questa baraonda non riesco a beccarlo.
La donna di colore non c’è più, dev’essere già salita sul suo autobus, sta partendo anche quello della comitiva in gita, mi passano davanti una sfilza di volti con occhiali da sole incorporati che fa sembrare la scena uno spot pubblicitario. Chissà dove vanno, mi chiedo.
Non faccio in tempo a voltarmi che vedo tutti i ragazzi dividersi in gruppi e sciamare rapidi come api alle arnie, svolazzano verso le porte aperte, salgono spingendosi, ridendo, prendendosi in giro. Si liberano degli zaini e vociano scomposti, posso sentirli perfino dai finestrini chiusi. Prendono posto per tornare a casa dopo la scuola, affamati, stanchi, con la testa già al pomeriggio.
Poi, uno dopo l’altro gli autobus lasciano la piazza, li vedo sfilare con il loro carico di vite e sento tutti quei respiri addosso fino a stordirmi. Li fisso fino a quando l’ultimo mi passa davanti. Solo ora mi ricordo… diamine! che mi è successo? Anch’io dovevo prenderne uno, non so quale, avrei dovuto informarmi, era senz’altro tra quelli che sono partiti, perché ora la piazza è vuota. Assolata e vuota. Non ce n’è un altro in partenza. Come ho fatto a dimenticarlo? E adesso? Che faccio?
Mi siedo su una panchina, la prima che trovo, e la piazza mi appare per quel che è: uno spazio desolante, come me o forse insieme a me. Mi siedo e alzo gli occhi. Il sole bisbiglia qualcosa, non è che capisca bene cosa. Mi stendo sulla panchina e penso che per un po’ è stato bello pensare di avere anch’io un autobus da prendere, un posto dove tornare, qualcuno lì ad aspettarmi, una casa dove mangiare.
Mi stendo e vorrei dormire, a mangiare penserò dopo. Lo so che i ragazzi spesso mangiano i loro panini a metà. Questo è un buon posto per sfamarsi, a quest’ora. Adesso che tutto è tranquillo meglio dormire un po’, bisbiglia il sole, ed io so che ha ragione.
Il sole dice sempre la verità a quelli come me.