La notte della felicità. Tabish Khair e la ricerca dello spirito

Recensione di Martino Ciano già pubblicata per Zona di Disagio. In copertina: “La notte della felicità” di Tabish Khair, Tunue
La notte della felicità è il momento in cui il passato incontra il presente ed è proprio in questo attimo che tutto si armonizza, perché l’uomo non può vivere senza aver memoria dei propri cari e di ciò che è stato.
Ed eccoci catapultati in India, a Mumbai, in una società multiculturale in cui c’è spazio solo per la razionalità e per l’automatismo. Tabish Khair, autore indiano, che oggi vive in Danimarca, ci porta in questa realtà che sta facendo i conti con la globalizzazione e con le sue contraddizioni. Ci fa immergere nella storia di Anil Mehotra, uomo d’affari cinico e razionale, e Ahmed, braccio destro di questo capitalista che sa interpretare la vita solo attraverso le leggi del mercato.
Il rapporto tra i due, incentrato sulla cortesia e la fiducia, cambia nel momento in cui Ahmed invita Anil Mehotra a casa sua durante la festa musulmana di Shab-e-baraat, ossia la notte della felicità. Notte durante la quale si commemorano i propri defunti. Un rito inusuale per Mehotra, uomo di mondo che non affida la propria anima a Dio, ma che ai suoi occhi diventerà ancor più inquietante a causa di alcuni comportamenti del suo “fido” Ahmed, dipendente mite, discreto, silenzioso, servizievole ed equilibrato.
Cosa si nasconde dietro Ahmed? Un assassino, un fondamentalista, un folle?
Il romanzo di Khair ci porta nei meandri di un’India che, come avvenuto anche per il nostro Occidente, non riesce più a guardare alle proprie radici e alle proprie tradizioni. Desacralizzata e demitizzata, anche la società orientale crede solo in ciò che vede e in ciò che può toccare. Pertanto, il multiculturalismo non è altro che il frutto di una società dei consumi che, lontana dal voler appianare le differenze sociali ed economiche, è diventata unità di misura anche per il sacro.
Per questo motivo, leggendo il romanzo di Khair poco ci discostiamo dai canoni linguistici ed ermeneutici da noi adottati. E sebbene questo sia un punto a favore, visto che ci troviamo davanti a una commistione di stili, di linguaggi e di concetti, frutto soprattutto del post-colonialismo, è vero anche che l’intero romanzo è un grido d’allarme.
D’altronde, Ahmed, nel suo silenzio e nella sua pacatezza, appare un po’ come il protagonista de Lo Straniero di Albert Camus, il quale trova sollievo solo nel suo Mondo.