La leggenda della libertà

Racconto di Antonella Perrotta

È l’alba.

La nebbia avvolge il borgo arroccato sul dorso della Montagna e anche la valle fino al lago, una pozza d’acqua alimentata dal fiume e dalle nevi delle Dolomiti e dalle piogge torrenziali d’autunno. Un versante della Montagna, un giorno di primavera di cui ormai pochi conservano il ricordo, era venuto giù con un sordo boato che aveva fatto tremare l’aria e ghiacciato il sangue dei montanari, immobili e impotenti di fronte all’evento, mentre gli animali selvatici si sperdevano, in fuga, e le capre belavano al chiuso degli ovili e i cani pastore abbaiavano all’aria. Pietre e terra e nevischio erano rotolati tutti assieme, si erano accucciati ai piedi di quel che rimaneva del versante, si erano assestati e avevano fatto da culla alle acque.

Il lago è nato così.

L’Uomo esce da casa. Accosta la porta, accarezza il legno degli scuri e la pietra tagliata a mano della facciata, rivolge lo sguardo alle tegole spioventi del tetto, poi lo allarga verso gli alberi con i rami irrigiditi dalla calaverna e si stringe d’istinto nel cappotto. La brina cristallizzata vira all’azzurro e l’acqua del lago a un turchese spento, ma l’aria sa di fumo e la Montagna ne è completamente avvolta.

L’Uomo la ricorda sempre così, la sua terra. Fumosa d’inverno e brillante d’estate, col ghiaccio di carta da zucchero e il lago di turchese, con la terra di bambagia e di smeraldo, con la Montagna di crema, di ferro e di carbone, con i girasoli d’oro e i fiordalisi che onorano gli occhi di sua madre. L’ha vista sconquassata dalla guerra, trapassata da parte a parte dalle bombe e dai proiettili, calpestata dagli scarponi dei soldati e da quelli dei partigiani che ne avevano fatto rifugio.

È stato uno di loro, un partigiano, in un tempo lontano, quando il coraggio non avevi bisogno di chiamarlo, ché l’avevi e basta, e il pensiero non avevi bisogno di propagandarlo ai quattro venti per convincertene, ché era tuo e basta, nutrito alla fiamma di un fuoco nascosto in una grotta. Il Bene e il Male l’ha sempre sentito dentro, senza bisogno che qualcuno glielo spiegasse e la guerra è il Male, è pianto secco, cristallizzato sulle guance come la brina sui rami, senza un accenno di azzurro che valga ad addolcirlo. Anche lui si è macchiato del peccato della guerra e ha chiesto perdono al Signore per questo. Non si è mai sentito un eroe, ma soltanto un peccatore che non ha avuto scelta e chissà se è vero…

Un proiettile sta ancora nella sua gamba destra. Averlo nella carne gli ricorda il suo peccato e quello dell’umanità intera e zoppicare è il suo modo di espiarlo.

A ricordargli quei giorni infami, anche un flauto che suo nonno aveva intagliato per lui col legno della Montagna quando era ancora un bambino. “Una leggenda dice che è il suono della libertà”, gli aveva detto e lui lo suonava e suonava ancora e, mentre le note rifluivano nella valle e arrivavano fino al lago, pensava ai caprioli, agli stambecchi, alle trote e ai cavedani, liberi di andare e di nuotare, e a se stesso, libero pure, e si sentiva rassicurato, ché tutto è possibile quando si è liberi, anche morire liberi. Per questo, per ricevere dalle note la consolazione di morire da uomo libero, aveva portato il flauto sempre con sé, pure in guerra, rifugio dopo rifugio, mentre si macchiava le mani e l’anima di sangue.

Ora, lo porta nella tasca posteriore dei pantaloni. Lo tocca per assicurarsi che stia lì prima di allontanarsi da casa. È più un’abitudine, ormai, la sua. Ha ricevuto il privilegio di nascere e vivere in un luogo che sa di quiete, ma l’Uomo è consapevole che si tratta di una quiete fittizia e precaria, che guerra si consuma in ogni angolo del mondo, che ci sono, e ancora ci saranno, proiettili conficcati in una gamba e scarponi di soldati a calpestare la terra e bombe ad annientarla e rifugi negli anfratti e peccatori che pensano di non avere scelta e pianto secco cristallizzato sulle guance come la calaverna sui rami. Sa dell’ambizione del Potere e della forza manipolatrice sugli eventi e dell’inganno della Verità, ché la Verità non esiste, è soltanto il frutto dello sguardo degli uomini. Sa che non può più credere alle favole raccontate da un nonno a un nipote per incoraggiarlo alla vita, né alle note di un flauto intagliato nel legno della Montagna e neanche alla sua terra che si rivolterà contro, prima o poi, pure più di quel giorno lontano, e neanche agli stambecchi, ai caprioli, alle trote e ai cavedani che nemmeno si riproducono più. L’Uomo sa di non poter credere agli uomini, burattinai della catastrofe e fautori del Male, lo stesso che anche lui ha commesso.

Ha peccato per niente. In guerra non c’è mai stato un solo uomo vincitore e nessuno è diventato davvero libero, neanche nell’ora della morte. Ma, per lui, sarà diverso.

Saluta la sua casa e si allontana da solo verso la Montagna alla ricerca di una grotta in cui accendere un fuoco nascosto, come fanno gli animali selvatici quando vanno a morire lontani dal branco. È giunta l’Ora, ormai. Si lascia avvolgere dalla nebbia, mentre le acque del lago sospirano senza infrangere il silenzio della valle.

Solo un suono, l’ultimo, di un flauto di legno.

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