La grande fabbrica delle parole

La grande fabbrica delle parole

Recensione di Letizia Falzone

Le parole… Cosa sono? Quanto sono importanti? Che valore hanno?

Curioso l’universo delle parole… Per qualcuno parlare non è assolutamente un problema, anzi le parole escono con una tale fluidità che talvolta dimenticano il proprio significato. Per qualcun altro parlare è difficile, una vera e propria impresa.

Questo albo illustrato ha a che fare, lo suggerisce il titolo stesso, proprio con le parole! La grande fabbrica delle parole è un libro per bambini e narra le vicende di uno strano paese in cui le persone non parlano quasi mai, perché le parole non rappresentano il normale approdo delle facoltà vocali umane, ma una preziosa merce da acquistare ed inghiottire.

In questo luogo surreale opera la grigia fabbrica (gestita da automi) che produce e stampa in continuazione le parole successivamente destinate al mercato, secondo uno schema che porta i vocaboli più importanti ad essere molto più rari (e dunque più costosi) e quelli difficili da inserire in una conversazione (come “ventriloquo” o “carabattole”) a trovarsi oggetto di saldi o, addirittura, di abbandono nei pressi della spazzatura.

Questa bizzarra situazione linguistica genera in modo quasi causale una sorta di stratificazione sociale del linguaggio che prevede i soggetti più ricchi ed abbienti sempre provvisti di parole e le persone più povere, per contro, costrette a risparmiare o ad afferrare i vocaboli dispersi nell’etere per poter comunicare. In questo contesto vagamente dickensiano si inserisce la storia di Philéas, bambino oppresso dalla povertà (linguistica), ma volenteroso di conquistare il cuore della bella Cybelle, in barba all’impossibilità di esprimere il suo amore come vorrebbe e di poterla lusingare con la parola orale.

Come se la povertà non bastasse, Philéas si trova pure costretto a fronteggiare la minaccia rappresentata da Oscar, bambino ricco ed arrogante, che ambisce anch’egli al cuore della piccola Cybelle e che può far leva su un bagaglio linguistico degno di Petrarca. Un bel giorno, Philéas decide di mettere da parte tre parole che è riuscito a catturare con un retino (“Ciliegia”, “Polvere” e “Seggiola”) e di donarle a Cybelle come pegno d’amore. Proprio quando il piccolo eroe si appresta a regalare le sue paroline all’amata, Oscar lo precede, snocciolando una serie di parole d’amore costosissime che rivolge alla bella Cybelle.

Le parole hanno un significato, ma parte del loro significato dipende dal modo in cui vengono pronunciate, un connubio di testa e cuore. Alle parole si unisce l’importanza dei gesti, della comunicazione non verbale che non è un linguaggio a sé stante, ma completa quello che le parole non dicono: un sorriso, un bacio. Philéas ci mostra che è possibile affrontare la dura realtà. Come? Con i mezzi a disposizione, ovviamente, usati con amore e sincerità. Una vera sfida, una nuova sfida. Trovare le parole, accompagnarle con i gesti che ci sono rimasti a disposizione o inventarne di nuovi. Ecco allora l’importanza degli sguardi, l’espressività degli occhi, i gesti delle mani.

Pensate se dovessimo scegliere accuratamente quali parole comprare per poterle dire. Cosa scegliereste? Prima di leggere questo libro, avrei dato certamente una risposta differente da quella che darei ora.

La storia è di per sé molto significativa ed emozionante, ma le illustrazioni sembrano cucite esattamente sulle parole. Le figure e gli sfondi di Valeria Docampo sono onirici, sono futuristici, ma anche così antichi (le botteghe e i personaggi della città mi ricordano i romanzi ottocenteschi), ma soprattutto sono vivi. Il vento che soffia nella maggior parte delle pagine si sente fischiare, gli occhi chiusi di Oscar come sono differenti da quelli di Cybelle! Della fabbrica in funzione si sente il rumore e l’odore, e l’espressione di Philéas con il retino in mano così titubante e preoccupato ma si capisce che ha il cuore gonfio di speranza: commovente!

A celebrare le parole è anche la sapiente disposizione delle parole sulle pagine con cambiamenti di font, di dimensioni, di posizione, di colore che si adattano a rappresentare il personaggio o il tono o il momento.

Agnès De Lestrade ci regala una favola moderna, ambientata in uno strano paese che è lo specchio di tutta la difficoltà moderna nel dare il giusto valore alle parole. Da parte della De Lestrade non c’è alcuna concessione al sentimentalismo o al moralismo: il finale della storia, nella sua semplicità, basta da sé, senza fronzoli e parole inutili, in perfetta coerenza col resto della favola. Le parole sanno a chi parlare. La grande fabbrica delle parole, però, insegna anche qualcosa sui sentimenti: la quantità non è sempre direttamente proporzionale alla qualità delle emozioni.

E Philèas, che lo sa, mette in campo tutto quello che ha, senza riserve. Oscar, al contrario, sommerso dalle possibilità che il denaro dei genitori gli offre, non dà valore a ciò che dice e, di conseguenza, a ciò che prova. Mentre Cybelle, bambina lungimirante, coglie la bellezza delle parole comuni, che acquistano valore grazie all’amore di Philéas, diventando così infinitamente più preziose di quelle vendute alla fabbrica.

Il rosso dei dettagli, colore del sentimento per antonomasia, avvolge tutto e diventa predominante nel momento in cui Philéas regala le sue parole a Cybelle (col suo bel vestito ciliegia) proprio quando risulta ormai evidente al lettore che, per amare qualcuno, non servono strane parole.

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