La giornata di uno scrutatore. Italo Calvino e una testimonianza diretta

Articolo di Gattonero

Nella nota d’autore finale, Calvino precisa e conferma la verità di quanto raccontato, a parte il pezzo sull’onorevole, infilato più o meno casualmente nel suo testo. E comunque sicuramente molto bene descrittivo di una situazione che sicuramente, se non in quell’occasione in tante altre, si sarà verificata. La Democrazia Cristiana di allora era utile al Cottolengo tanto quanto questo era acqua buona al suo proprio mulino. Innegabile. E non molto diverso da quanto si è poi ripetuto nei decenni successivi da parte dei poteri susseguitisi. Magari non al Cottolengo come ente fisico/giuridico, ma verso altri che sono stati messi all’ingrasso a discapito dei più in perenne sofferenza. Tuttora.

Quello che ha visto Amerigo, così perfettamente raccontato, corrisponde a verità, con l’unica, quasi impercettibile, differenza che a lui è stato supporto, stampella, pungolo, a considerazioni che in assenza di questi stimoli sarebbero forse comunque nate, e che restano valide al di là del preciso occasionale contesto. Un quadro di pensieri in cui la cornice assume maggiore rilevanza della profondità del suo pensiero.

Chissà se, senza il Cottolengo, i dubbi di Amerigo avrebbero visto la luce…

Dicevo della piccola differenza: nel ’53 mi ero appena diplomato (V elementare, e posso garantire che si trattava di un vero diploma che, per come elargito a suon di convincenti sistemi d’incentivo, era sudato e guadagnato, e ha poi avuto un peso e un valore per il resto della vita; i somari con laurea di oggi, se non sono Trote, a buona parte poco ci manca), da qualche anno ero immerso in quel mondo. Quello che Amerigo ha potuto vedere in un giorno, sovente strabuzzando gli occhi, alimentando i suoi dubbi e passandoli a chi legge per farli macerare anche a lui, personalmente li ho visti e vissuti ogni giorno, per anni. Tanto da non farmi più, come si dice, né caldo né freddo.

Sarebbe quella comunemente nota come “indifferenza”. Non la stessa di chi vedendo una persona storpia, o un poveraccio che tende la mano a chiedere un obolo, o che, assistendo a un sopruso o una violenza, gira lo sguardo altrove… quella è menefreghismo o coniglite acuta (occhio non vede, cuore non duole, coscienza in coma…) su quanto la circonda.

L’indifferenza cui mi riferisco è quella di vedere dall’interno, vivere da dentro come parte in causa diretta determinati avvenimenti, in determinati periodi storici.

Nella “famiglia Invalidi”, ad esempio (ed era proprio definita così, senza tanti giri di parole, senza ‘diversamente abili’ che velassero ipocritamente una situazione di fatto innegabile e irreversibile), c’erano i focomelici, tipo l’uomo grande e grosso citato da Amerigo; c’era Didimo, lavorava in legatoria e faceva il barbiere, senza gambe, appoggiato su una panchetta che lo portava dove voleva a forza di braccia e movimenti d’anca, mai visto alcuno che gli desse una mano. C’era il cieco, Giorgio, che suonava la tromba nella banda musicale (tutta di ‘invalidi’, con un uomo senza braccia che indossava, da solo, legandolo ai moncherini l’aggeggio per suonare la grancassa portata a tracolla… e i tromboni… le cornette… quando suonavano, ma non solo, i ‘diversamente incapaci’ eravamo noi… con invidia, pensate!). Questo Giorgio andava in brodo di giuggiole quando gli chiedevo di leggere qualcosa dai suoi libri in braille o quando ancora gli chiedevo di farmi vedere come scriveva testi nella stessa ‘lingua’.

I nomi delle “famiglie” erano di immediata indicazione dei rispettivi ‘normalissimi’ accidenti, e che le distingueva le une dalle altre. C’erano i Sordomuti, gli Epilettici… i ragazzi affidati a santi specifici in base all’età, Luigini fino alla seconda mignin (elementare), Giuseppini dalla terza al ‘diploma’, Tommasini quelli che frequentavano una specie di pre-seminario in vista di una dedizione al sacerdozio.

Parte maschile e parte femminile, doppioni di genere, con le identiche limitazioni fisiche che costringevano ad adeguarsi a quello che il convento della vita passava. I ragazzi e le ragazze in età scolare, ufficialmente sani e integri nel fisico, erano anch’essi ‘diversamente abili’: privi degli affetti e dell’amore famigliari, beni comuni ai ragazzi della loro età, quelli esterni. Della loro orfanità facevano virtù, quasi a riprova che non sempre si è figli esclusivi di chi mette al mondo le creature; si diventa figli obbligati di chi li alleva. Con alcuna carezza, senza tante coccole, passando quanto indispensabile a una crescita fisica e morale, e niente più.

I “buoni figli” citati da Amerigo in effetti erano una “famiglia”, detta appunto dei Buoni Figli. Che erano come descritti nel racconto. Presentati, già all’epoca del Fondatore, come i figli prediletti di Dio e che come tali, almeno nelle sue direttive, andavano trattati.

Amerigo, entrando in un mondo ai più sconosciuto o misconosciuto (il termine ‘cottolengo’, torinizzato in cutu, da sempre è insulto sinonimo di deficiente assoluto, più che balengu che indica un’assenza mentale limitata e parzialmente indirizzata: cutu indica una mancanza totale di sentimenti, di sensazioni, di reazioni… una specie di coma itinerante) e se ne sente attratto e respinto in un saliscendi da montagne russe, che gli fa rimuginare dall’inizio alla fine, pensieri che non sanno di teologia o filosofia, ma di umanità: sono considerazioni umane di un essere umano senziente. Non esasperate fino al cinismo della compagna socialista, o di difesa preconcetta di quella democristiana; tanto meno dall’indifferenza del presidente del seggio, per il quale tutto va ben madama la marchesa pur di non essere (dis)turbato nel suo quieto tran-tran protocollare.

Per Amerigo, il Cottolengo nel suo complesso da una parte è l’invenzione di un Dio infame; dall’altra è costretto a riconoscerne il potere, riflesso soprattutto nelle persone che, in maniera comunque soggettiva, riuscivano e riescono ad accudire (ad amare? possono tutte essere malate di una forma di feticismo?) questi ultimi, che altrove e in altri tempi sarebbero finiti direttamente nei rifiuti. E non tanto altrove o in altri tempi.

Il muro che delimitava la cittadella non era soltanto fisico, ma soprattutto mentale. Impediva la vista del mondo esterno così come la percezione che potesse esistere un altro mondo, altri modi di vivere, altri concetti da percepire ed elaborare. Un guscio infrangibile, più da noce di cocco che da uovo di ovipare. Ecco, in poche parole, il riassunto di quella che è stata la mia reazione a questo bellissimo resoconto di una giornata particolare, che ad altri potrebbe sembrare di ‘ordinaria follia’.

Mi è piaciuto, e molto; il che mi fa ritenere di essere un depravato dai pensieri complessi, delle domande senza risposta, dei ragionamenti di un profondo che non riesco mai a raggiungere.

 

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