La figlia dell’ottimista. Eudora Welty e il “prima” e “dopo”

Recensione di Antonio Maria Porretti

Passato e Presente: eterni antagonisti di un conflitto che apre squarci e faglie tra un “Prima” e un “Dopo”; tra ciò che scompare e ciò che rimane. E a pagare è sempre la vita.

In La figlia dell’ottimista di Eudora Welty, romanzo insignito del Premio Pulitzer nel 1973, il tempo si articola e scandisce in quattro movimenti di una sonata dell’assenza, dove la memoria della protagonista dovrà rimodularsi attraverso una nuova partitura dei suoi affetti. Giunta da Chicago a New Orleans per assistere il padre nel corso di un intervento alla cataratta, Laurel Hand Mckelva – detta Polly – ha modo di incontrare la sua seconda moglie: Wanda Fay. Una donna originaria del Texas, molto più giovane, e che incarna l’antitesi più completa e perfetta dei valori nei quali lei è invece cresciuta. Wanda è una corifea di una certa mentalità tipicamente a stelle e strisce, che riconosce solo nella concretezza dell’ottenimento, nel qui e ora, l’unica modalità di concepire la vita. Al contrario di Laurel che invece vive in una sua dimensione di clausura fra i propri ricordi, facendone oggetto di culto.

Ma la memoria non è di per sé stessa incubatrice a salvaguardia della verità. E la morte improvvisa del giudice Clinton Mckelva, ricondurrà la figlia dell’ottimista proprio in quella casa a Mont Salus, nel Mississippi, dove verificare e prendere coscienza di quanta idealizzazione sia composto il suo passato; quante manipolazioni si siano aggiunte e accumulate al suo patrimonio di sentimenti. Dopo il funerale e fra quelle mura che la vedranno ospite per l’ultima volta, di nuovo a contatto di quella piccola comunità che vive congelata nell’ossequio più reverente verso le proprie tradizioni, Laurel dovrà trovare una nuova forma di dialogo con la sua storia.

Un dialogo che ella cerca di riannodare innanzitutto con Becky, la madre, morta anni prima portandosi dietro un bagaglio di confessioni mai rivelate. Il ritrovamento delle sue lettere indirizzate al marito durante i periodi in cui vivevano separati, per il lavoro di lui, per le vacanze in Virginia di lei nella sua casa di famiglia, smozzicano verità che verranno confermate tra puntini di sospensione e repentini silenzi, anche dalle vicine di casa, anche dal chiacchiericcio serpeggiante durante la veglia funebre. In pratica, tutti, Becky compresa, erano al corrente della presenza di un’altra donna nella vita dell’Ottimista. Beneficiario di una omertà che mantenesse intatta l’onorabilità di tutta Mont Salus. E allora, quella solidarietà, quel sostegno reciproco di cui Laurel è stata per molti anni testimone, cos’erano? Una forma di ottimismo per soddisfare e non contraddire i termini di un buon nome?  E la sua scelta di andarsene a Chicago per lavorare come disegnatrice di tessuti, era una difesa per allontanarsi da una precarietà illusoria che avvertiva, ma a cui non sapeva che nome dare? Nelle tensioni che le percorrono e scuotono il cuore, Laurel dovrà scoprire, comprendere, lucidarsi e poi allontanarsi, per ritornare ad abitare la sua memoria con una nuova luce di pacificazione.Temi e modi di questo romanzo sono tipici di quella Southern Literature che ha in Faulkner il suo massimo officiante e che Eudora Welty indaga in questo suo romanzo, così come nel resto della sua produzione narrativa, cercando nella parola semi di un Eden dove l’evanescenza diventi terra reale.

Pubblicato per la prima volta in Italia da Fazi editore nel 2005 , tradotto da Isabella Zani, “La figlia dell’ottimista” è stato ristampato da Minimum Fax, nella nuova versione tradotta da Simona Fefè.

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