L’esca

Racconto di Antonella Perrotta

Camminava nervosamente, le gambe si muovevano a scatti. Controllò che il microfono agganciato al reggiseno fosse al suo posto. Lo nascose bene sotto la camicetta e, per sicurezza, chiuse un altro bottone ma, poi, lo sganciò. Si sentiva soffocare. Avrebbe voluto strapparsi di dosso reggiseno, microfono e camicetta e rimanere nuda, libera, con i seni al vento come in un manifesto femminista. Tossì e una voce maschile le giunse nitida dall’auricolare minuscolo posizionato al suo orecchio sinistro. “Più forte” disse la voce.

“Più forte” ripeté lei tra sé e tossì nuovamente, trattenendosi dal guardarsi intorno per non tradire la posizione della camionetta della polizia. Il cuore le batteva a mille. Pensava che i suoi battiti si sarebbero sentiti forti e chiari, come un grido affidato all’aria, alla luna, alle stelle che la sovrastavano dall’alto, bellissime ma indifferenti. Temeva che la sua paura l’avrebbe tradita e condannata.

Cos’era lei? Una spia, un’infiltrata, un’esca. Cos’era?

Sì, un’esca: le sembrava la definizione più adatta. Un bigattino che puzza di morte attaccato a un amo. Pensò al mare, ai pescatori, ai pesci catturati che si agitavano e, dimenandosi, finivano nel secchio ad attendere la fine con gli occhi sgranati, vitrei. Non sarebbe stata uno di quei pesci. Non lei. Scacciò via il pensiero dell’amo, del bigattino e, soprattutto, della morte. Fece un respiro profondo, ma il cuore non ebbe tregua. Avrebbero voluto darle un’arma in dotazione, dopo un corso accelerato di tiro. Si era rifiutata. Anche quella puzzava di morte: degli altri, la sua, non aveva importanza.

“Chi cazzo me l’ha fatto fare?” sussurrò e una risata le giunse all’orecchio dall’auricolare. Ridevano gli altri, ma erano suoi i giorni stravolti, quelli che non le appartenevano più ché ogni sua parola, ogni suo passo, ogni sua azione erano controllati.

Esca. Se l’avesse raccontato in giro non le avrebbero creduto. Ma, tanto, a chi avrebbe potuto raccontarlo? C’è chi vende il corpo, chi l’anima, chi entrambi e c’è chi li riscatta. Ebbe un moto di rabbia. Quante lamentele aveva ascoltato, quante ne aveva lette sulle pagine dei social, dei blog, dei giornali? Quanta giusta e sacrosanta indignazione impregnava l’aria? Per gli appalti truccati, per il cemento abusivo, per gli scarichi di liquami a mare e i depuratori non funzionanti, per i veleni sepolti sotto terra, per le pasticche allucinogene vendute in piazza a dieci euro a minorenni rincoglioniti, per l’auto saltata per aria, per gli ospedali che non erano più ospedali ché non potevano più curare nessuno, per le strade e le rotatorie progettate senza criterio e costruite senza cura che facevano morti su morti. Ecco, dietro tutto questo, spesso, si muovevano soltanto ombre, cui bisognava dare un volto, una voce, un’identità, attribuire una colpa, valutare una discolpa e comminare, se del caso, una condanna.

Per questo era lì, col suo auricolare all’orecchio, con le gambe che continuavano a tremarle e a muoversi a scatti, col cuore che batteva all’impazzata e il fiato che  si faceva corto, col ricordo assordante del rumore degli spari al poligono da tiro, mentre la notte non le apparteneva e l’uomo usciva dalla macchina all’ora e al posto concordato, scrutandola con diffidenza. Dall’auricolare le giungeva la solita voce maschile che le ripeteva cosa dire. “Mi hai capito?” furono le ultime parole che le giunsero all’orecchio e lei assentì con un segno del capo, quasi quel gesto potesse avere un suono. Ripeté in testa il copione, avrebbe dovuto ripeterlo ancora, forse già la sera a venire. Meglio, rimanere lucida. “Ciò che va fatto, va fatto” si consolò. Piantò bene i piedi a terra, andò incontro all’uomo, alzò la testa. Ciò che va fatto, va fatto, sì.

 

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