James Hillman, comprendere il suicidio e saper convivere con la morte

James Hillman, comprendere il suicidio e saper convivere con la morte

Articolo di Martino Ciano – già pubblicato su Zona di Disagio

L’esserci in un eterno presente ha posto i suoi tabù, ossia, la morte e il suicidio. Non solo di questi argomenti è vietato parlare, ma addirittura bisogna trattarli sempre con distacco, come se non appartenessero alla quotidianità.

La nuova religione, scaturita dalla tecnocrazia, prospetta all’individuo la vita fisica eterna. L’uomo può rimanere sempre giovane, può essere sempre sanato, può sottoporsi sempre a trattamenti ringiovanenti. Anche il sistema economico guarda alle aspettative di vita; più queste aumentano, più si inventano nuove categorie merceologiche o sistemi che diano una illusione di immortalità. Dell’anima non si cura più nessuno. La società contemporanea l’ha posta in un angolo, rendendola una cosa astratta. È diventata parte di una sterile discussione dai connotati religiosi, teologici o superstiziosi.

Sembra paradossale, eppure, considerare che la morte sia l’unica cosa certa della vita, equivale a pronunciare una bestemmia. Per la scienza e per la medicina, salvo incursioni avanguardistiche, lo sviluppo di una visione che unisca corpo e anima non è solo impensabile, ma addirittura è considerata un’eresia.

Il corpo è stato posto a mille miglia dall’anima; se fosse provata la sua non esistenza, da tempo sarebbero cadute molte barriere etiche.

Se poi parliamo del suicidio, l’argomento viene relegato alla statistica, ossia, al conteggio dei morti. Numeri che poi vengono usati dai sociologi, dagli economisti, dagli psicologi e dai medici, per stilare quelle pratiche di prevenzione in favore della salvaguardia della vita fisica.

Sia ben chiaro, né difendo né elogio il suicidio. Questa riflessione scaturisce dalla lettura de Il suicidio e l’anima di James Hillman, libro scritto all’inizio degli anni sessanta, in un periodo in cui il positivismo cieco, infruttuoso ed esaltatore delle potenzialità della tecnica e delle scienze, continuava a influenzare la medicina e la psicologia.

Bandita la morte, è normale che il suicidio, atto volontario, interpretato anche come ribellione verso la società e Dio, diventa un argomento tabù e da mettere a tacere. Per Hillman, il discorso verte su un aspetto: il suicidio va compreso e guardato non dal punto di vista della società e della salute mentale, ma dell’anima e della morte.

Per quanto riguarda la morte, Hillman parte da concetti già espressi nei secoli dalla teologia, dall’alchimia e dalla filosofia: accettando la morte si accetta di vivere, perché, nel mondo fisico, in ogni cosa viva sono già presenti i segni della morte.

Ma se la vita è un pellegrinaggio verso il tramonto, cos’è la morte?

Hillman si affida di nuovo a quanto espresso in passato: l’anima dialoga con la morte e le va incontro perché la interpreta come passaggio. In poche parole, per l’anima la morte non esiste. Essa è una porta che apre ad altro, mentre per il corpo è la fine, quindi, l’inizio della decomposizione. Se guardiamo il tutto da questo punto di vista, anche il suicidio entra in questo dialogo e può essere interpretato come una richiesta di rigenerazione sussurrata dall’anima. Ciò non vuol dire che il suicidio sia qualcosa di positivo, ma che sia innescato da una serie di condizioni che trovano luogo nella sterilità e nel degrado emotivo e psichico di un determinato ambiente. Pertanto, il suicidio non va solo prevenuto o guardato con orrore, ma bisogna comprendere perché l’anima lo ricerca. Non bisogna limitarsi alla diagnosi e alla cura della patologia, ma dar vita a un dialogo empatico.

Ripartire dall’anima, quindi, non darebbe vita a un’operazione antiscientifica, ma, al contrario, restituirebbe alla scienza connotati umani. Infatti, l’anima non è un elemento astratto o indefinibile, ma rappresenta energia e vita psichica, che hanno la meglio sulle leggi del tempo e dell’entropia, e leggere Hillman non fa mai male.

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