“Un viaggio verso gli inferi per recuperare l’anima”. L’itinerario di Katya Torchio
Recensione di Katya Torchio
Con “Itinerario della mente verso Thomas Bernhard” assistiamo al secondo atto di una drammaturgia iniziata con “Oltrepassare” i cui protagonisti sono il nulla e l’incomunicabilità. Quell’incomunicabilità esistenziale che condanna a morire per vivere.
E la morte si consuma in una stanza con il focolare, sineddoche di una realtà più ampia. Perché quella stanza è un nido d’appartenenza fatto di radici e rami secchi. Perché a quelle radici sono intrecciati i rami inseminali dell’estraneità che esplora il non senso della vita, quasi una condanna da vivere senza appello alla trascendenza.
Una stanza che è la casa del protagonista. Il luogo da cui ricordare gli estinti per vincere la rabbia, da cui vedere il resto dei luoghi che appartengono fisicamente a quella casa ma non ne fanno parte. L’ambiente dove si sono consumati sacrifici immondi che hanno reso inumano chi vive lì dentro. Dove si muore anche solo nel ricordo di chi è morto.
Ebbene sì, bisogna morire per vincere l’illusione della vita e darle concretezza. Una camera dove l’istinto del suicidio non è ammesso, dove piangere non è ammesso, dove soffrire non è ammesso, dove tutto ciò che di più caro e profondo tenta di appartenere alla storia della vita viene dissacrato dalla violenza di un conflitto tra tempo e tempo, presente e passato, realtà e sogno, rifugio e luogo della persecuzione.
Non una stanza quindi ma un mondo sottoposto alla prepotenza di un padre che non sa amare, che comunica imprecando, e che così suggella il suo potere sulla moglie e sui figli. E la risposta a quella violenza è il silenzio sacrificale della donna, un silenzio non rassegnato, una rivolta camusiana che incontra l’assurdità della vita senza sfuggire, guardandola in faccia e affrontandola nell’unico modo possibile. Un sacrificio assurdo che in quella stanza incontra il degrado sociale, il potere della possessione, il non senso della vita.
Una logica esistenziale, quella di Ciano, che ha superato ogni ottimistica fiducia eroica, ogni pretesa fideistica per scivolare nello spleen cupo e soffocante di una dialogo senza interlocutori, di un male di vivere da cui non è possibile prendere le distanze, che non si può superare. Una malattia del vivere che va affrontata pur nella solitudine senza scampo di un io che non c’è in un mondo che invece urla la sua esistenza. Un dolore rabbioso che a tratti fa pensare a Pavese e a quella disperata ricerca di un’identità, al recupero di un’innocenza pura ma sporcata dal fango della vita.
Un quadro familiare che si costruisce sulla struttura barcollante della violenza verbale e fisica, del non amore, della malattia che ha contagiato tutti, a partire dal padre non padre, aguzzino, impositore di regole morali che non sa rispettare, privo di ogni opportuna considerazione per gli altri. Poi la figlia, immorale e frivola. E, infine, la moglie sempre munita di un coltello con il quale taglia cibi e alimenti, un’arma di difesa forse, che rivolgerebbe d’istinto a suo marito, se non fosse convinta che uccidere è sfuggire all’assurdo che va affrontato necessariamente. Un contesto assoggettato all’assurdità della vita, dove tutto è il contrario di tutto: la giustizia impone di tacere il reato perché confessare significherebbe giustificarsi.
Tutti sono colpevoli. Il senso di colpa prepondera. L’umiliazione e la delusione intrecciano la cattiveria. E il protagonista, che si racconta in prima persona, quasi parallelamente al personaggio dostoevskiano del romanzo Memorie dal sottosuolo, è una persona malata e cattiva. Anche per lui il dolore della solitudine scioglie la speranza nel veleno della disillusione. La prosa, dallo stile curato e pittorico, dipinge quadri sintattici fatti da periodi che vibrano emozioni pungenti e che attraversano le coscienze. Ci sono stacchi quasi lirici che raccolgono le descrizioni emozionali sulla madre: bella da accendere il cuore e da trasmettere l’eternità. Sono descrizioni scandite da anafore, simili a nenie funebri, che scolpiscono nella lettura un degrado sentimentale sofferto più che descritto.
Martino Ciano come già Svevo, tutela lo sfogo del protagonista del suo romanzo, perché è troppo intimo e drammatico. Anche lui infatti, come Zeno, è conscio dell’incurabilità del suo male, ma non riesce ad essere autoironico, arrivando, attraverso la consapevolezza della malattia, a esplorare la contraddizione senza riparo della vita, la sua assurdità. Appende alla parete della nostra lettura un quadro di mondo ridotto a brandelli. L’urlo di Munch più disperato.
E allora un altro elemento si aggiunge all’emozione: la paura. Quella che paralizza. Quella che uccide. Lo sfogo intimo di un vissuto complesso che rischia di esser pubblicato da quel mentore tanto amato che è Thomas Bernhard, immaginario ma non troppo, amato e ora temuto. Non uno psichiatra chiamato a curare la nevrosi come in Ettore Smith, ma uno scrittore, cioè qualcuno che sa entrare nelle pieghe dell’anima per metterla a nudo. Una personalità telepaticamente collegata con un io empaticamente vicino a ciò che non è accettabile, a ciò che non è vivibile. Un violentatore di pensieri e progetti, capace trasformarli, una volta scritti, in follia.
Perché Ciano o forse il suo protagonista, poco importa, riesce ad ispirare Thomas Bernhard, che è più di amico immaginario, e con lui finalmente compie un difficile viaggio verso se stesso.
Quella raccontata è una vita nella follia di un Dio che sta per morire, agonizzante. Una vita mai scelta ma destinata come una maledizione e che costringe a uccidere per poter sopravvivere, a tagliare le radici di quel nido in cui non si è al riparo. A recidere un fiore del male, quell’unico maledetto fiore nato in un giardino mai coltivato. Perché quel fiore non può crescere, è maledetto.
Un viaggio verso gli inferi per recuperare l’anima.