Un’isola felice
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Racconto e foto di Martino Ciano
Il crack è un prodotto tipico locale; lo trovi di notte, corre tra gli adolescenti fino ai quasi adulti. Ti incastra la testa tra vari pensieri, tant’è che ne esci un po’ sconvolto perché certe cose ti si fissano come un martello, ma il rumore del martello, che batte sul chiodo ormai infilatosi nel muro, procura fastidio: un suono ferroso che solletica i timpani, fino a perforarli lentamente, come se qualcuno ci passasse del fil di ferro. Allora schizzi, prendi l’auto e scappi come se dovessi andare a casa di qualcuno per ammazzarlo. Ti viene in mente un vecchio torto, una parola fuori posto, magari quell’episodio in cui eri eccitato, ma non ti stava dritto e tu pensavi che di colpo fossi diventato impotente, inservibile a te stesso e alla specie. E quella tipa davanti a te, nuda e pronta, sorrideva e ti diceva “dai non fa niente” e invece tu avresti voluto spaccarle la testa contro il muro. Sai che dolore le avresti procurato, eppure sarebbe stata la manifestazione più sincera della tua virilità. Avresti ristabilito l’ordine, la linea di sangue che unisce uomo e donna fin da quando furono cacciati dal Paradiso Terrestre. Ma ti sei fermato, calmato e rivestito. L’hai salutata per andare in cerca di roba, di lapislazzuli e diamanti.
Tutte queste cose le ricordi con lucidità? Tra le tempie è andato in funzione un Centro revisioni che ora sta riassettando il mezzo. La revisione della tua auto è scaduta, ma te ne freghi. La felicità della botta ti sculaccia. Il dolore è diventato amore, piacere, poesia esaltata; ti mostra Dioniso e le ancelle, le orge che trovi nella piazzetta poco illuminata nei pressi del locale notturno della tua costa alto tirrenica. La provincia di Cosenza è così giamaicana e californiana. Le cosce come rami spogli, le piste sempre illuminate, la polvere senza acari, la purissima e sempre vergine coca che si infila nelle narici per volontà dello Spirito Santo, quel buon whisky che ti ha reso anche “Queer”, cosicché di esperienza in esperienza ti fai la vita.
Mentre io scrivo la tua testimonianza, per mezzo del grido d’allarme che mi hai gettato, in nome del’umanità che ti è stata tolta, ti giuro che riporterò cose che mi hai detto, perché tuo e non mio è questo disegno nascosto sotto cumuli di perbenismo e di bigotto rimpianto. Non sei figlio del degrado né delle colpe degli avi, sei ciò che hai scelto per essere diverso, solo che ti è piaciuto tutto e troppo; fino all’ultimo respiro o granello. Anche questo l’hai detto tu. Io rispondo “allora è vero che…”, e tu controbatti “tu lo dici”.
Mentre il viaggio finisce e l’effetto è svanito, ti risveglia il desiderio; io avverto l’ansia in cui mi fa annegare l’astinenza delle parole. Saper dire, ma non avere i termini giusti, richiede un grande sacrificio: farsi cavia, persino concetto.
Basta così.