“Sul sentire e sulla poesia”. Quattro domande a Doris Bellomusto
Articolo di Martino Ciano. In foto Doris Bellomusto. Seguici e iscriviti anche sul canale WhatsApp: https://whatsapp.com/channel/0029VaDWcN25EjxzoWoAJu05
Doris Bellomusto è nata in Calabria, a Cosenza, ora lavora al nord, ma non si è mai dimenticata delle sue origini. Delle sue poesie abbiamo già parlato. La sua ultima raccolta si intitola “Nuda”, pubblicata nel 2022 per Landolfi editore; negli scorsi anni si è presentata al pubblico con altri due libri di poesia, ossia “Come le rondini al cielo”, Tracce Edizioni, 2020; “Fra l’Olimpo e il Sud”, Poetica Edizioni, 2021. Ma di un poeta, che prima di tutto è un essere umano e mai potrà fare a meno di esserlo, vogliamo conoscere l’altro-che-lo-ispira… e allora abbiamo posto quattro domande a Doris.
C’è il sentire e c’è il conoscere. Doris di cosa scrive?
Doris scrive di ciò che sente, anche la scrittura può essere un organo sensoriale, quello che riordina e sovrappone visioni e sensazioni, impressioni fugaci che chiedono di essere contenute per non disperdersi. Si conosce il mondo attraverso l’esperienza sensoriale, il conoscere è una paziente costruzione di significati e la scrittura certamente è per me uno strumento utile.
Corriamo dietro alla vita, ci affanniamo, ci disperiamo, non ci accontentiamo sempre di ciò che riceviamo e abbiamo. È scrittura anche l’insoddisfazione?
Sì, senza dubbio anche la scrittura nasce dall’insoddisfazione e a sua volta genera insoddisfazione. Io scrivo perché scrivendo reinvento la mia identità, mi guardo da prospettive che oltrepassano il mio quotidiano e la mia vita, attraverso le cose che scrivo, scivola oltre il perimetro noto. Scrivere significa per me spiare le mie sconosciute identità, arrivare a vedermi intera proprio grazie a questo continuo scompormi in frammenti.
Una poesia d’amore o di distruzione. Quanto rincorri gli opposti e quanto ti senti ignorante davanti a un foglio bianco?
Davanti a un foglio bianco, in effetti, ignoro sempre cosa e come scriverò, ma è una sensazione giocosa. Io scrivo per essere altro da me, andare oltre la mia pelle, sconfinare. Nasce da una ingorda voglia di giocare con me stessa per vedere cosa nascondo oltre lo specchio deformante dell’egocentrismo che, spesso, muove chi scrive poesia. Scrivo per costruire significati laddove spesso il tempo va logorando buona parte dei significati già dati e ereditati. Non scrivo d’amore, ma per amare meglio. Le contraddizioni basta svelarle per non sentirne il peso; gli opposti sono necessari e non possiamo evitarli. Io scrivo in versi e questo significa frantumarsi, vedersi attraverso un caleidoscopio di parole, spesso polisemiche, eppure in ogni frammento è possibile scorgere l’intero. Al contrario quando inseguo la coesione, la coerenza, l’interezza vedo solo confusione, sono un groviglio di insensatezza che si scioglie solo spezzandosi, come se fossi pane.
È viva la poesia o è morta l’arte?
Può morire la voce dei poeti, ma la poesia resta viva. Sono le cose piccole che fanno bella la vita, nella rugiada e nella brina, nei tramonti, nel mare in tempesta, nel vento e nella musica, a volte la scorgiamo, altre volte la ignoriamo. Io non credo che l’arte possa morire e così anche la poesia, almeno finché ci saranno i bambini, i fiori e le stelle.