“Ciò che resta e ciò che va via”. Quattro domande a Marco Masciovecchio

“Ciò che resta e ciò che va via”. Quattro domande a Marco Masciovecchio

Intervista di Martino Ciano. In copertina una foto di Marco Masciovecchio

Dell’autore romano Marco Masciovecchio ho subito apprezzato la schiettezza. La sua raccolta poetica, dal titolo “Poco più di niente”, edita da Ensemble, mi è apparsa come una lucida testimonianza che giunge dal passato per porre domande a chi guarda “solo al futuro”. In un vortice di riflessioni, in cui ogni verso “racconta e cattura”, ho preparato quattro domande per lui.

Di una poesia meglio non dire troppo, eppure tu accompagni il lettore in un vissuto che ha già detto tutto. A lui quali conclusioni lasci?

Non c’è, in ciò che scrivo, l’ambizione di offrire conclusioni precostituite o risposte che, tra l’altro, non ho. Spererei, piuttosto, che il lettore abbia uno spunto di riflessione da cui partire. Mi piacerebbe che suscitasse domande più che risposte. Poi il “viaggio” è individuale, è personale. Le parole possono evocare immagini, suggestioni, ricordi e da qui l’accesso a diverse opportunità di decodificazione, di ipotesi…

Poco più di niente, eppure, se si vive intensamente, ogni momento può diventare ingombrante. Pensi che la poesia sia un ottimo disinfettante?

La poesia non sterilizza, non depura, non decontamina. Forse, è un cammino per incontrare la realtà in una sorta di procedimento dinamico che va dal dentro al fuori e viceversa. È un tentativo di ricerca di senso, anche se provvisorio.

Fuggiamo da noi stessi e dai nostri ricordi, eppure senza radici e senza memoria non potremmo avere né “una identità apparente” né “una esperienza salvifica”. Ecco, a te quel poco che è rimasto basta per scrivere versi?

Fuggire non salva, non ci mette al riparo da noi stessi e dal vivere. È, al contrario, nella memoria, nelle radici che dobbiamo indagare per ritrovare quella “linfa” che può renderci unici e autentici. Fuggire dai ricordi, perché potrebbero darci dolore o riaprire ferite non sana, non cicatrizza, non libera. Riandare per tornare offre, forse, la possibilità di recuperare ciò che è ferito ed abbracciarlo.

La borgata, la droga, l’emarginazione, la lotta politica e l’amore? Tocchi tutti questi temi, ma con impeto. Denunci e istighi, appari come un uomo del secolo scorso, ma i problemi sono sempre gli stessi. Che ne facciamo quindi degli uomini di oggi?

Impeto sì, ma non è certamente quello dello scandalo. Denuncia? Forse. Ma figli della medesima urgenza: il bisogno di salvezza. In realtà, le storie che racconto fanno parte di una storia che si ripete da sempre, Arriva sempre il momento in cui, inevitabilmente, ci accorgiamo che c’è qualcosa di irrisolto che ha ancora bisogno di domande. Che ne facciamo dell’uomo di oggi mi chiedi… Così come quello di ieri e di domani spero continui a “guardare le stelle” e a porsi domande.

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