In diem vivere

Racconto di Antonella Perrotta

Il vento soffiava dalla montagna verso il mare, puliva il cielo e increspava le acque.

Paoletto Capelli osservava dalla cima del monte il paesaggio sottostante, lo sguardo rivolto alla china e alla città che le fasciava i piedi, volgendosi al Tirreno. Le capre gli brucavano intorno, silenziose. Le aveva scelte una a una e, ormai, aveva imparato a conoscerle, pure se un nome, no, non glielo aveva dato. Gli sembrava un’etichetta da umani, una schedatura fuori natura.

Aveva conosciuto due vite e ne aveva abbracciata una.

Capraio, lo era diventato per scelta. Per scelta, un giorno, aveva deciso di ristrutturare la casupola che era stata di suo nonno e in cui sua madre aveva visto la luce fra i versi delle mucche e delle pecore che smorzavano le grida del travaglio e gli odori della terra che si mischiavano a quelli del sangue e degli umori del parto. Era rimasta abbandonata da tempo quella casa di appena due stanze in cui i suoi avi erano cresciuti stipati, fiato nel fiato. Intorno, c’era la terra ed era libertà, silenzio, solitudine, compensazione appagante della condivisione murata di spazio e di aria, di abitudini e pure di pensieri che, grazie alla terra, mai era pesata. Era rimasta intatta la terra di suo nonno. Non era buona a costruirci e difficile da coltivare, valeva poco o niente. L’abbandono e la scarsa appetibilità l’avevano preservata dalla violenza dell’ultimo cinquantennio. Era un po’ una sopravvissuta, proprio come lui, e, anche per questo, gli era cara.  

Per scelta, Paoletto aveva deciso di licenziarsi dall’istituto di credito in cui lavorava, premio ambizioso per una laurea ambiziosa. “Che razza di vita sto facendo?” si era chiesto a un certo punto, ogni mattina, prima di prendere posto dietro la scrivania in una stanza dalle pareti bianche. Era stanco di sentire sempre gli stessi discorsi, opportunisti, menefreghisti, qualunquisti, fermi alla superficie dell’evidenza acerba di ciò in cui fa comodo credere. Parole di circostanza, parole senza peso specifico, parole che dicevano niente e tradivano tutto, parole senz’anima, farfalle grigie di vita breve svolazzanti fra le riproduzioni di famose opere d’arte fissate alle pareti. Era stanco di numeri, di percentuali, di tassi d’interesse, di sorrisi ipocriti con cui negava concessioni e prestiti a persone disperate. Era stanco della disperazione altrui che, poi, fluiva in lui, diventando anche la sua. Bilanciata dall’entusiasmo della sua carica, inizialmente. Predominante, poi. Insopportabile, infine. Aveva deciso, allora. Aveva scritto la lettera di dimissioni e l’aveva inviata al Direttore responsabile. Era libero. Soltanto a questo aveva pensato, mentre i colleghi già si affannavano per ricoprire il suo posto.

Da banchiere a capraio. Nessuno aveva capito quello che lui definiva un salto di qualità. Lo avevano preso per pazzo, amici, figli e moglie l’avevano abbandonato ché era la sua scelta, non la loro. Eppure, da quelle bestie barbute Paoletto aveva tratto soddisfazione.

“Capre, non pecore” aveva detto a Saverio Bruni, l’allevatore che gliele aveva vendute. “Ché le capre sono bestie coraggiose, indipendenti, sanno farsi rispettare nel mucchio. Le pecore, invece, so’ pecore…”, la sua opinione. Saverio lo aveva guardato, aveva alzato i sopraccigli, storto le labbra e detto: “Vabbé”, col tono di uno cui poco fregava. Capre voleva, capre avrebbe avuto.

Come allevarle e come trarne un profitto minimo per campare glielo aveva insegnato la vecchia Rosetta, amica d’infanzia di sua madre che la terra non aveva mai lasciato e di lana e latticini s’intendeva. Ogni tanto, lo correggeva ancora, Rosetta, pure se, ormai, erano tre anni che Paoletto se ne stava sulla collina e tre anni valevano trenta in quel mondo parallelo che dipanava i suoi giorni di fianco al mondo riconosciuto, schedato, standardizzato, incontrandolo di rado. Il tempo aveva un peso lassù, non correva veloce. I minuti riuscivano ad acquistare il sentore dell’eternità, a giocare ancora con i precedenti, a non dare per scontati i futuri. Le capre brucavano, s’inerpicavano tra le pietre, s’incornavano per una femmina, si accoppiavano, decidevano se dargli retta o continuare a farsi gli affari loro, mentre Paoletto fingeva di controllarle ma, in realtà, le osservava soltanto, senza alcuna pretesa di addomesticarle. Era andato lassù anche per questo: per sfuggire all’addomesticamento. Figurarsi volerlo imporre a delle bestie selvatiche.

Nella solitudine delle terre aspre aveva incontrato se stesso e, da allora, non si era sentito più solo. Quando incontrava i cittadini che raggiungevano la collina per comprare i formaggi di capra, li guardava a distanza, a distanza ascoltava i loro discorsi sulla bontà degli alimenti naturali che, però, non volevano produrre ché le mani sporche, puzzolenti e callose in città fanno schifo. Ancora più distanza richiedevano gli sproloqui che riproducevano registri anagrafici e casellari giudiziali, riportando nascite, morti, matrimoni, arresti, assoluzioni, ma si colorivano anche di asserzioni non scritte, non documentate né documentabili, vere soltanto nelle lingue di chi le pronunciava, che odoravano di fiele e dicevano di streghe, di draghi, di mostri, di puttane. Paoletto sapeva che l’umanità ha bisogno di nutrirsi di veleno e, poi, di liberarlo contro qualcuno. Cuore e mente agiscono come un apparato digerente: ingeriscono, si nutrono e, poi, evacuano. Lui aveva scelto di ingerire altro e, anche se il ciclo sarebbe rimasto lo stesso, sarebbe stato certamente meno tossico. Perciò, assentiva con la testa, indossava un sorriso di circostanza e ritornava alle sue capre senza pronunciare una sola parola.

Paoletto “Il pazzo”, ormai, lo chiamavano i cittadini, gli stessi che avevano pianto dinanzi alla sua scrivania per ottenere un prestito dalla banca. Anche quella voce, casualmente, gli era stata riferita, una virgola all’interno di uno dei tanti sproloqui. Paoletto aveva sorriso, come al solito, quasi una conferma, la sua.

Finché la luce del giorno lo avrebbe accompagnato, avrebbe continuato a guardare giù, verso la china. La città in lontananza si stendeva sulla costa, una cappa d’umidità e di emissioni inquinanti le stava sopra come un ombrello, accentuandone il grigio dei contorni. Intorno ad essa, solo terra bruciata da piromani che, nell’appiccare il fuoco, avevano trovato la maniera per evacuare agevolmente il veleno di cui si erano nutriti. Dinanzi, il mare agitato dal vento dell’Est non aveva più colore. Le luci al tramonto avrebbero coperto i difetti, come i fari sparati in faccia in uno studio televisivo correggono le rughe. La città sarebbe parsa un presepe e i cittadini, pastori magnanimi che ricoprivano di doni Nostro Signore. Ma Paoletto sapeva. Sapeva tutto, anche ciò che gli altri non avrebbero mai imparato. A sera, avrebbe ricoverato le capre, acceso il camino, preparato la cena e letto uno dei libri che aveva portato con sé. L’alba sarebbe stata dura, il lavoro maggiore lo attendeva quando gli impiegati e gli operai della città ancora dormivano e la luna non aveva ancora svegliato il sole.

Nessun rimpianto. Anzi, si riteneva un miracolato, un Lazzaro risuscitato. In quel pezzo di terra sopravvissuta, fra le rocce e gli sterpi, più vicino al cielo di quanto lo fosse mai stato, si era liberato dall’umana pretesa di ammaestrare il mondo e di vivere secondo le regole di tale ambizione. E andava bene così.

Nel borgo abbandonato di Pendidattilo, nell’Aspromonte, una donna vive da sola da più di trent’anni, allevando capre. È l’unica abitante del borgo. Prima di tale scelta, lavorava alle Poste a Milano. Questo racconto breve è liberamente ispirato a lei.

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