Improvvisamente l’estate scorsa. Tennessee Williams e la crudeltà della natura
Recensione di Antonio Maria Porretti
Avviene di rado che un testo teatrale venga scelto come meta di lettura, a meno che non si rientri nella categoria degli appassionati, per non dire degli “ addetti ai lavori”.
La notorietà di questo titolo è soprattutto – se non unicamente – legata al film del 1959 diretto da Joseph Mankiewcz, con un cast di blasonatissime star hollywoodiane quali Katharine Hepburn, Montgomery Clift e Elizabeth Taylor, nei rispettivi ruoli di Mrs. Venable, Dottor Cukrowicz e Catharine Holly. Tuttavia, il testo della pièce di Tennessee Williams, ora disponibile anche in lingua italiana grazie al pregevole lavoro di traduzione di Monica Capuani per Scalpendi Editore, non lascia spazio che a un’unica e assoluta protagonista: la Natura nella sua veste più crudele e distruttiva.
Quel “Giardino della Creazione” che campeggia dall’inizio alla fine sullo sfondo della scena, voluto da Sebastian, dio minore che anche da morto sovrintende e domina sui destini dei tre personaggi principali, immortalato dalla versione cinematografica in tutta la sua inquietudine e ripugnanza. Questo grembo in perenne parto di forme aspre e ostili, di suoni sotterranei, cupi, minacciosi si configura quale sintesi e affresco della mostruosità dell’essere umano.
Lo sapevano bene già gli Antichi Greci, ponendo al centro della scena (ed eleggendolo a fulcro del loro Teatro ) l’atto sacrilego della hybris, ossia del sovvertimento di un ordine inviolabile; così come lo sapeva bene Tennessee Williams, nei cui drammi non manca mai la figura del “prescelto”, del “ predestinato”, di un eletto da Sacre du Printemps, destinato a immolarsi come vittima sacrificale, affinché l’esercizio, lo scettro di un potere insano – e di tutto un corpo teorico inteso a giustificarlo e decretarlo – rimanga saldamente nelle mani del più forte di turno. Tale è la storia del mondo, invariata da secoli.
Ma tra mistificatori, manipolatori, approfittatori, testimoni consenzienti e passivi, vi sono anche i puri folli, le mine vaganti pronte a esplodere per rimettere tutto in discussione, creare crisi, conflitto fra il così è e il così potrebbe essere. Per sua natura e vocazione, il Teatro è scomodo; ci priva delle nostre zone di conforto; ci costringe a guardarci per quel che siamo. Certo, è preferibile non vedersi. Meglio evitare che lo sguardo possa cadere, scivolare, slittare sul décor delle nostre miserie. Meglio ravvivare e rinfocolare gli opportunismi e le convenienze di ogni genere.
Mi accorgo che il discorso sta deviando dal mio intento iniziale: dare risalto a questa pubblicazione troppo a lungo attesa. Pare inconcepibile e assurdo pensare che l’editoria italiana abbia accantonato a lungo un testo di tale livello e portata. Un titolo introvabile nelle collane teatrali delle maggiori case editrici. E per chiudere l’anello aperto all’inizio di questo mio commento, vorrei citare un aneddoto relativo alla scena cardine del film, con il monologo finale di Catharine dove vengono svelate e chiarite le circostanze della morte di Sebastian, l’assente-ossessivamente-presente.
Mankiewcz ne girò una doppia versione. Una con primi piani sul volto della Taylor, un’altra in modalità di flashback, con la voce off dell’attrice che racconta quella tragica fine. La Taylor risultò così trascinante in entrambe, che in sede di montaggio il regista decise di integrarle fra loro nella sequenza ben nota a coloro che il film lo hanno visto. Williams tra l’altro collaborò in modo determinante alla sceneggiatura.
Pertanto, consiglio di non lasciarvi sfuggire né il film né il libro.