Il sorriso di Tonino di Antonella Perrotta
Un racconto di Antonella Perrotta
La 127 bianca di mio padre stava dove l’aveva lasciata il giorno prima: nell’autofficina di Tonino Lazzaro. Aveva la fiancata sinistra macchiata di schizzi rossi, come se qualcuno si fosse divertito a spruzzarvi del ketchup.
In realtà, era sangue. Quello di Tonino. Il suo corpo, crivellato di colpi, giaceva a terra, di fianco all’auto di papà su cui stava lavorando. Il giorno appresso, al suo posto, una sagoma di gesso.
Era il ventotto settembre 1979.
“C’era da aspettarselo” dissero molti, quasi tutti, in paese, e lo dissero col tono rassegnato, come se il crimine commesso fosse normale.
Soltanto pochi esclamarono: “Bastardi!” e maledissero gli assassini.
Mio padre non disse niente. Pianse e basta.
Tonino Lazzaro era un ragazzone di un venticinque anni, coi capelli bruni e ricci, alto, esile e ciondolante come una canna al vento. Era sempre sporco di grasso di motore, l’aveva dappertutto, sulle mani, all’interno delle unghie, sugli avambracci e pure a chiazze sul viso, che solo gli occhi, grandi e vispi, scampavano a quel grasso nero e lucido. Era gentile e sorrideva. Sorrideva sempre, pure se lavorava dodici ore al giorno per mantenere i genitori, i figli e la moglie Angela che sorrideva sempre pure lei e, quando guardava suo figlio, anche di più.
Perché l’avevano ucciso?
Il paese lo sapeva, la polizia e la magistratura pure. Tonino aveva denunciato le estorsioni che, da tempo, subiva. Riparare le auto e truccare i motori montati sui due ruote utilizzati per gli illeciti gli toccava e pure gratuitamente, pena … chissà cosa, ma un cosa che non sapeva di buono. E, poi, c’era il pizzo sui proventi del suo lavoro che doveva consegnare a cadenza mensile, puntuale e certo quanto la morte.
Tonino non aveva parlato, inizialmente. Ma quando in un’auto della Mala aveva rinvenuto il cappellino di Silviuccio, il bambino rapito e poi scomparso, non ce l’aveva fatta più e aveva denunciato, in nome dell’anima di una creatura che poteva essere la sua. Il valore di una denuncia, però, dipende dai punti di vista.
Per alcuni, è un’imperdonabile tradimento; per altri, finché non è supportata da prove concrete, vale poco, quasi quanto un cicaleccio.
Ci vollero dieci anni per dar seguito a quella denuncia e per rendere giustizia a Tonino. Fu grazie alle dichiarazioni di un tipo, ‘ndranghetista pentito o infame, anche questo dipende dai punti di vista.
Ci vollero soltanto dieci giorni per liberarsi della 127: papà la vendette a un forestiero che non sapeva il fatto. Così facendo, sperò di dimenticare più in fretta, lui che non riusciva a darsi pace. Ma la fiancata della 127 bianca ricoperta di sangue innocente non la scordò comunque. Un’immagine fissa nella mente come un chiodo sulla parete. E neanche il sorriso di Tonino scordò. Come avrebbe potuto.
Il paese, negli anni, cambiò idea e, così, tutti finirono col maledire gli assassini. Ma sono ancora in attesa di indossare lo stesso coraggio di Tonino Lazzaro. Meccanico, con moglie e figli a carico e il sorriso sulle labbra.