Il signore delle formiche. “Quel presente che non è figlio di nessuno”

Il signore delle formiche. “Quel presente che non è figlio di nessuno”

Articolo di Antonio Maria Porretti

Hanno due stomaci le formiche. Uno individuale, l’atro che viene utilizzato come dispensa comune a favore dei propri consimili rimasti senza più scorte di cibo. Forse era per questo spirito di solidarietà, soccorso e assistenza, che Aldo Braibanti le amava tanto, mutuando dal loro comportamento quel desiderio di offrire a giovani menti delle risorse in grado di ampliarne prospettive e orizzonti.

Per sottrarle all’ottusità, l’ipocrisia e il bigottismo ancora tanto riveriti e ossequiati nei tardi anni 60, nonostante i cantieri della contestazione fossero già in piena attività. Poeta, filosofo, intellettuale scomodo perfino per quella Gauche in cui credeva e si riconosceva, figlio della resistenza partigiana, appassionato mirmecologo, tuttavia, il “Signore delle Formiche” dava scandalo per una non ostentata ma neppure taciuta omosessualità. Parola tabù da scansare, evitare, abiurare, espiantare nel nome e nella carne di chi lo era , togliendolo dalla circolazione. Per designare quelli come lui si ricorreva a sostitutivi quali pederasta, invertito/pervertito, o secondo il suo dialetto emiliano, culatùn.

Perfino il processo istruito a suo carico, conclusosi con una condanna a nove anni di reclusione, recava come dicitura l’accusa per plagio. Ossia, per un atto di manipolazione, dominio e annullamento operato e perpetrato ai danni di volontà presumibilmente più deboli e incapaci di sottrarsi al suo giogo. Così stavano e andavano le cose allora ; ma si potrebbe limitarle e circoscriverle solo ad allora?

Perché questo film di Gianni Amelio presentato in concorso durante l’ultima edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia, non si propone soltanto di riabilitare – sia pure fuori tempo massimo – la figura di Braibanti, ma di suonare anche come sirena d’allarme contro certe arretratezze di ritorno così in gran ri-spolvero e con la vocazione, nemmeno troppo celata, di reinsediare al potere la triade D. P. F. = Dio – Patria – Famiglia, su cui un certo Ventennio ha edificato tutta la sua mitologia antropologica, stabilendone gli unici parametri di riferimento, validi per decretare il valore e la dignità di una persona.

Da sempre il suo cinema si caratterizza per una forte impronta d’impegno civile; più volte nelle aule di un tribunale ha ambientato le sue storie. E nel riproporre questa, l’intento non è affatto quello di creare empatia o compenetrazione da parte del pubblico, piuttosto di scuoterlo e stropicciarlo quel tanto che basti a indurlo a riflettere sulle direzioni che il nostro presente potrebbe imboccare, inoltrandosi nell’uso sintattico di un futuro coniugato al passato : chiaro no?

Tale disegno registico viene sostenuto al meglio da tutto il cast degli attori coinvolti. A partire da Luigi Lo Cascio, che offre un’interpretazione di Braibanti svolta e condotta sul registro di un’adamantina asciuttezza, che nulla concede ad amplificazioni mimiche o di toni, restituendone la forza di uomo consapevole di quel che gli sarebbe accaduto.

Le musiche verdiane inserite nella colonna sonora – tratte da AIDA e da OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO – assolvono magnificamente a questo compito. A ribellarsi invece è il giornalista interpretato da Elio Germano, che su incarico dell’Unità deve seguire il suo “caso”. Il vero e grande sconfitto è lui, quando il partito decide più opportuno e conveniente distanziarsi da una materia ritenuta ormai troppo imbarazzante e rischiosa. Lui insieme alla cugina Emma – Sara Marrocco – che un’apparizione del volto in primo piano di Emma Bonino verso la metà del film, fa pensare che si tratti proprio di lei, rivedendosi da giovane attraverso gli occhi della sua memoria. Per inciso, il suo nome compare fra gli sceneggiatori. Non vi sono vincitori, in questa vicenda perdono tutti.

Chi anni di vita, chi ideali, chi la propria famiglia o quel che ne resta. Nemmeno la madre di Ettore, a cui dà volto e espressività sobria un’intensa Anna Caterina Antonacci, che pur rapendo il figlio dalle braccia di quell’amorale destinato all’inferno, per rinchiuderlo in un manicomio e sottoporlo a un trattamento di elettroshock, affinché guarisca da quella insana malattia, neppure lei potrà ritenersi premiata dalla sua azione correttiva, di ripristino di una condotta di vita nei solchi di una impeccabile onorabilità sociale. E tanto meno il fratello maggiore di Ettore, figura estremamente ambigua nell’adombrare quasi un sentimento di rivalità e gelosia nei confronti di una relazione forse fortemente desiderata e con altrettanta forza repressa. Ma se in questo episodio di un conflitto che oppone da sempre bene di natura a perbenismo, si volesse trovare a ogni costo qualcuno da considerare vincente, per quanto paradossale possa apparire, credo che lo si possa rintracciare nella figura di Ettore.

L’anima persa e traviata da ricondurre lungo i sentieri della rettitudine, il capro espiatorio da sacrificare nel nome di un santificato conformismo, per poi ribattezzarlo e riammetterlo nella  società del decoro. Il suo percorso di resistenza alla perdita e alla sconfitta, la sua silenziosa ribellione a chi vorrebbe davvero manipolarlo, la costruzione lenta e costante di una sua fortezza interiore, si alternano e avvicendano nel ricalcargli addosso l’effige di un eroismo diversamente espresso. Ad abbinare, dosare e miscelare la palette di queste tinte e sfumature, un potentissimo e abbacinante Leonardo Maltese alla sua prima apparizione sullo schermo – è bene rimarcarlo – ma dotato di una naturalezza da lasciare increduli. Il lungo piano sequenza con cui la cinepresa riprende e si sofferma sul suo volto durante l’interrogatorio prima del verdetto,  credo che rimarrà una delle testimonianze più crude sulle devastazioni che menti grette e asserragliate nelle roccaforti delle proprie fobie possono produrre su individui della loro stessa specie. Non così le formiche , appunto.

Per concludere, vale dunque ricordare questa poesia di Bertold Brecht :

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari,
e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto
Perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali
E fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi nulla perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto più nessuno a protestare.

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