Il rifiuto. Terza parte

Racconto di Giuseppe La Licata

Non mancarono le sorprese e una notte, tra uno sgarbato colpo di vento ed un lamento minaccioso, sentì d’un tratto il suo corpo spezzato in due, sfidato dalla ferocia di una lama astuta e invisibile. Si levò di scatto e si tirò d’istinto indietro, poi ruggì furiosamente affondando con violenza le mani nel vuoto per strappare dal buio fitto e sinistro le pupille corrotte del suo presunto assassino.

Seguì il rantolo di una bestia affamata e offesa che riparava ora in una fuga senza tregua nè destinazione. Avvertì solo una sorta di fascinazione per il succedersi fulminante degli eventi e rimase in piedi rigido con lo sguardo impietrito verso l’ignoto. Gli occhi affilati come fendenti squarciavano il ventre gonfio e complice di quella notte gravida di sdegno e di rancore come la madre che l’aveva generata. Ancora una volta il suo olfatto non lo aveva tradito ed annusava nell’aria il tanfo greve di una vendetta fallita, il puzzo ottuso di un crimine che aveva smarrito il suo bersaglio. Dalla sua postazione continuava a registrare l’eco dei passi corti e accelerati dell’improvvido esecutore che proseguiva nella sua corsa,   braccato non dal terrore, ma dal tormento insostenibile del suo errore e dall’impossibilità di custodirne il segreto. In verità non si sentì particolarmente sorpreso dell’accaduto, la logica della delazione era un vecchio trucco per arginare il cammino della follia, di una follia lucida, consapevole come quella da lui coltivata in tanti anni di generosa e solitaria operosità. Il frutto del suo lavoro cominciava a maturare lasciando affiorare sulla crosta molle di questa terra i primi segni d’insofferenza della nostra amata Signora, che mostrava ora nell’affanno del suo respiro tutta la precarietà del suo orgoglioso dominio.

Ritornò zoppicando alla panchina, si distese con naturale pigrizia, incrociò le mani dietro la nuca, chiuse gli occhi e si addormentò. In quella postura restò prigioniero di un sogno come da innumerevoli notti non gli era più accaduto. Per una strana metamorfosi la sua testa si era trasformata in una curiosa sfera d’amianto, svuotata all’interno e priva di gravità, resa umana ed irregolare nella metà anteriore per effetto di due profonde depressioni perfettamente simmetriche che lasciavano intuire il remoto sito di uno sguardo. Si sentiva attratto dall’assenza di peso di quel singolare involucro, e percepiva con soddisfazione una levità gradevole e rassicurante come quando aveva imparato a nuotare senza più alcun timore degli scogli e delle maree. Scrutando dall’esterno fissò la sua attenzione sulle curve perfettamente levigate di quel volto che di riflesso rimandava una luce fredda e sbiadita. Non c’erano più tracce di rughe, ferite, cicatrici e nemmeno la linea vagamente selvaggia di un grido o di una contrazione; in quell’espressione levigata e metallica la sua storia, la sua fatica, sembravano purificati e chi avesse semmai plasmato quella forma, scegliendo non a caso una materia incombustibile, aveva provveduto con cura a lasciare intatta l’impronta della sua incurabile innocenza.

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