Il rifiuto. Prima parte
Racconto di Giuseppe La Licata
“Non sempre un viaggio comincia con la valigia” – questa fu l’ultima battuta che riuscii a catturargli, prima di perderne le tracce. Scappò così da casa, e da quel momento la sua vita scelse la forma improbabile di un esilio notturno. Nella città la sua esistenza era interamente dedita alla quotidiana raccolta dei rifiuti e nel sonno della metropoli la raccolta era ricca, fruttuosa, non priva di sorprese e d’inconvenienti.
Ogni notte, sì uguale all’altra, nelle partenze e negli arrivi, dal blu opaco al grigio rosa dell’alba, ma gli incontri clandestini con uomini e animali randagi continuavano a procurargli una certa emozione. Le sue qualità percettive si erano affinate; a ciò aveva contribuito quella naturale diluizione del tempo notturno, non priva di effetti sui resti ingarbugliati della sua coscienza da sempre convalescente. Un tempo che allo spalancarsi del sorriso della notte si riavvolgeva su se stesso e si distendeva in una scansione lenta fino a disintegrarsi in un’orizzonte vuoto e misterioso. Cominciò a sentirsi piacevolmente nomade e carezzava con il suo passo felpato l’inconsistenza di ogni destinazione. I pensieri ossessivi che una volta si rincorrevano nel vortice del suo cervello, si scioglievano ora nell’acido della sua nuova occupazione. L’andatura si fece decisa e sicura, il percorso studiato e mai ripetitivo, l’intelligenza pratica e intuitiva.
Riconosceva a distanza e fiutava, agitando con abilità le mani tra avanzi e pattume della gente, ogni elemento vitale: un passo, un suono, un urlo, un guaito o un lamento, attribuendo ad ogni evento il peso specifico di una sensazione interiore. Questo non era privo d’importanza per uno che aveva, lasciato alle spalle il nome, la casa e perso in modo definitivo le tracce della sua storia. Ora si era inabissato nella vertigine di uno smarrimento irreparabile. Aveva miracolosamente imparato a nuotare – un desiderio dell’infanzia – nuotava con un’abilità, per così dire, musicale.
La pigrizia e la fragilità di quel corpo inespressivo si risolvevano in una singolare leggerezza, che lasciava affiorare, da ogni più piccolo gesto, la traccia di un suono o qualcosa di gradevolmente armonico; questo doveva percepirlo con ogni probabilità anche dentro se stesso, perché in più occasioni, per quanto affaticato dalla minuziosa selezione dei rifiuti, con tutto il corpo scomposto per agguantare l’intimità delle viscere, si ritrovava a canticchiare ad intermittenza lunghe note isolate, suoni bisbigliati. Unico riferimento fisico era rimasto il luogo: la città, dentro la cui frastagliata geometria si aggirava speditamente, rintracciando con spiccato senso d’orientamento i passaggi segreti, le tortuose scorciatoie, i labirinti torbidi ed inesplorati. La città nascondeva un meraviglioso ricamo e lui ne ripercorreva con accanita curiosità la delicata trama, la ricostruiva al suo tatto, coniugando con apprezzabili risultati, una buona dose di astuzia insieme ad un certo equilibrismo psichico.
C’erano un disegno ed un’armonia inespugnabili in quelle sue attente perlustrazioni, lunghe nuotate sotterranee che lo conducevano da un angolo ad un altro della metropoli, indagata da quelle sue mani sottili, esplorata con scientifica cura fin nelle zone più tenere e sensibili del suo intestino. Il contatto coi rifiuti era infatti il contatto vero e feroce con le viscere della Città, l’espressione più crudele e nervosa del suo volto rovesciato da cui a tratti era possibile intravvedere le zone più nascoste del suo effimero, della sua ingordigia, della sua boria. La vacuità diurna, la stupidità quotidiana, l’affabile ripetizione del buon senso, affioravano senza equivoci al tatto di quelle mani che per lunga esperienza erano ora in grado di ricavarne un distillato acre e banalmente affettuoso. Incidentalmente era cresciuta in lui la percezione del suo preciso compito, quello – era questo forse uno dei suoi dubbi molesti – di ultimo custode del segreto delle cose notturne.