Il pensiero a pedali. Tra Cartesio e fallimenti vari

Articolo di Giuseppe Milite

Povero Cartesio, quella sua grande, profonda e, poi, così famosa intuizione: “Cogito ergo sum”…

Chi avrebbe mai potuto prevedere, allora, quale misero epilogo attendeva il pensiero: l’essere, quindi. Quasi da piangere, guarda caso, mi viene al pensiero della sua totale unificazione; ridotto a pensiero unico e, in fondo, forse, l’unica unità trovata, in sostanza, dagli umani dal dopoguerra ad ora. Più che mai incontrovertibile, in buona parte in occidente ma non solo. Da quando, ovvero, è cominciato il benessere arrivato dai quintali di cambiali firmate a debito con la moneta e col pianeta, ed a tutt’oggi.

In sostanza, noto, che la preoccupazione principale, in quest’era, sempre e più che mai antropocene, è come pensare quel tanto che basta. Come applicare, ovvero, il minimo sforzo mentale per poter divorare quanto più è divorabile e ai massimi regimi. Il tentativo è semplice e direi, ora, così naturalmente egoistico ed elementare: godersi il più possibile la vita e, per quanto riguarda tutto il resto, evitare a ogni costo ogni eventuale, ulteriore punto di domanda!

È così che Dio, e penso a Nietzsche stavolta, di ora in ora e a loro insaputa sempre più muore. Un nuovo e inconcepibile modo di essere. Tanto da generare, a sua volta, un essere sempre più simile al nulla, cartesianamente. Tutto questo, troppo spesso, avviene inconsapevolmente, poiché così è previsto dal “sistema”. E comunque, in eventuali casi per così dire avversi, è l’individuo stesso che per amalgamarsi, sentirsi accolto, partecipe nell’orda, a cercare a tutti i costi, il modo, l’opportuno stratagemma, per non averne una significativa percezione. Meglio ancora quando, allora è il massimo, non ve n’è una benché minima coscienza. Sia ben chiaro, a guardarmi intorno, a disamina compiuta, non mi attendo nulla di buono dal futuro e, per me, che purtroppo non so nemmeno sperare, poiché, in verità di mistica non mi intendo, è un bel problema. È così che al massimo mi attendo che l’eterno susseguirsi d’eventi, quindi il caos, l’entropia, possano esserci, in qualche modo, per qualche solita, imprevedibile ragione, favorevoli. Ciò nonostante, il perché per me è un mistero, spendo ancora parole, direi, a iosa e compulsivamente e pur sapendo, in coscienza, che inutilmente. Inarrendevole proseguo. Mi incoraggia l’idea che l’impatto ambientale dello spreco di parole, sia prossimo allo zero e vado avanti. Ed ora, prima che vi stanchi, vado al punto, ovvero, all’utopistica pretesa.

È mia convinzione, nel momento in cui scrivo, pur non garantendo, sia ben chiaro, che non possa essere rimaneggiata, modificata già domani, che in ognuno di noi il pensiero, di pensiero in pensiero, letture d’ogni genere, interlocuzioni tra umani ed esperienze, debba evolversi in modo costante e progressivo. Chi si ferma col pensiero, credo sia, in realtà, più che in ogni altro andare, il vero perduto.

Dopo questa lettura, se attenta, ho buoni elementi per crederlo in questo momento, potreste volendo, magari, restare più tempo a casa, sul divano perché no, comodamente seduti; con i relativi vantaggi e certo non trascurabili per voi: così per la natura, gli animali e l’intero ambiente. Dovreste, almeno mi auguro, avere dopo, meno voglia di andar consumando cherosene negli aerei, gomme, benzina o gasolio in automobile, scarpe per vie inutili, sostanze d’ogni genere e, in generale, di sprecare meno energie fossili e mentali. Non che non sia bello muoversi, viaggiare, girovagare. Il problema è quando lo si fa, come mai in quest’epoca, esageratamente. Perché, magari, non si sta bene appena ci si ritrova soli con se stessi. Si gira, allora, e si rigira come trottole e solo perché si deve girare per forza, poiché, se ci si ferma solo un attimo, immediatamente, si sta male. O peggio, a volte, viaggiare così, solo per viaggiare. Pur senza avere, o avere avuto mai, un vero e proprio interesse per il luogo dove si va, dove si è andati. Viaggiare, magari, semplicemente per poter dire al ritorno immagino, ai parenti, agli amici, che lì, noi sì, ci siamo stati. E ancora o solo, non escludo, per esibire di ritorno vere e proprie corazzate Potëmkin; veramente troppo spesso, inutili e noiose carrellate. Fotografie, scattate all’ingrosso a tonnellate dell’era digitale.

Affinarlo, dicevo, il pensiero. Con continui aggiornamenti. Di ripensamenti migliorarlo o, addirittura, del tutto cambiarlo, senza pregiudizi, quando e come dovesse esser ritenuto necessario. Per centrare l’obiettivo è fondamentale, ineludibile direi, coltivare la curiosità, il dubbio; quest’ultimo soprattutto. Cioè, così che di divenire in divenire, in qualche modo, si cominci ragionevolmente e di nuovo, mano a mano, chissà, un po’ noi tutti a ragionare. Che venga, finalmente allora, sempre di più meno questa, quasi, totale follia, vera malattia sociale e che, in quest’ora certo, tanto affligge noi.

Ah, dimenticavo: prima di ogni altra cosa, in questo percorso è necessario allontanare mentalmente e il più possibile qualsiasi dogma, così poi, gli archetipi, le origini di quel che siamo ora, tutto il vecchio, insomma, ogni cosa. Vanno abbandonati d’appartenenza, persino, lo stato, la città, il paese, la frazione, il rione. Non è concesso a chi, ciò nonostante volesse provare, nemmeno il quartiere, né altri luoghi d’affezione. Certo non è che uno, quanto ho menzionato, lo deve dimenticare. Diciamo in qualche modo, in qualche maniera, semplicemente dargli la giusta importanza, prenderne, di fatto, l’opportuna distanza. Rendersi, cioè, sempre un po’ meno i classici, comuni umani.

Non sarebbe ammesso ma, un’unica concessione, se proprio non potete farne a meno, qui almeno, nell’attesa di un minor numero di rinunciatari, voglio essere buono: potreste tenervi, allora, la squadra del cuore, il pallone. Però mi raccomando, all’uopo, tifare con rigorosa moderazione. Pensate, ogni volta che state per esagerare.

In quei momenti, tanti, insomma, in cui vi possa sembrare che il mondo stia per crollare. Proprio in quei frangenti pensate a quanti soldi ci vogliono per vincere uno scudetto o, comunque sia, una grande competizione. Ovvero, per remunerare, alla grande, gli amati campioni, così i grandi allenatori, i manager e le televisioni. A tutti quei soldi, in fondo, che anche se non capite dove e come, non dovrebbe ma capita spesso, in qualche modo state pagando e pagate, continuamente. La foga, l’ira, le vedrete taumaturgicamente placarsi.

Le storie, la storia poi, che ci hanno raccontato, che ci raccontano e ci racconteranno: prendete tutto sempre con le pinze e, poi, senza indugi, dritti al microscopio e qualunque sia la fonte.

Gli indirizzi intellettuali, morali, i valori poi, quali di sorte in sorte variabili in funzione del dove siete nati. Diversi, quindi, da stato a stato e che, sempre, avete ricevuto come gli unici affidabili, assoluti e inalienabili: al macero, bruciateli! Distruggere le regole, i condizionamenti tutti e dal primo all’ultimo!

Che sia completamente universale, allora, libero in ogni senso, il senso dell’appartenenza! Sarà, solo così, sano, il nuovo punto di partenza. Sarà il punto, finalmente, dove potersi riunire con se stessi e, così, rendere possibile, magicamente, la cosa più importante come per naturale conseguenza: il riunirsi agli altri in pace.

Non si può mancar d’avere, ancora, continuamente chiaro in testa e finché si vive, che sempre si era, appena prima un istante del mentre si è, e così per ogni istante che nel passato ha preceduto o che precederà in futuro, il successivo. Notare, poi, che il “precede”, il tempo volutamente omesso nella frase appena prima, il presente intendo, è così breve da essere l’unico momento in cui tutto fa sembrare, a pensarci, come ad un’indicazione non scritta ma percepibile e misteriosa. Potrebbe, in realtà, rappresentare il vero, l’unico e fondamentale nocciolo della questione.

Consiglio, pertanto marcatamente, di dargli grande peso, in modo da essere un po’ più tara noi, non sempre tutto, nelle equazioni, mai così vitali come ora, all’interno delle odierne e future riflessioni.

 

 

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