Il gatto
Racconto di Riccardo Sapia
La piazza era baciata dal sole soltanto per metà, quella ricadente sul lato della Chiesa. Questa è la ragione per cui ogni giorno in questo periodo mi siedo sui gradini del portale, a mezzogiorno, durante la pausa dal lavoro. Faccio il pieno di sole e di calore. I raggi colpiscono braccia e gambe penetrandomi fino alle ossa, lasciandomi una sensazione di benessere. È ciò di cui sento bisogno, mi serve per riuscire ad affrontare il resto della giornata in quel luogo oscuro, freddo e umido che chiamiamo posto di lavoro. A un tratto, al centro della piazza, si materializzò una scena a dir poco raccapricciante.
Mi alzai di scatto.
– La smetti, tu! Che cavolo stai facendo?
– A tìa chi tinni futti? ‘Un sunnu cazzi tua!
– Sarà così, ma devi comunque smetterla. Hai capito, cazzo? Basta!
– Ti rissi ri fariti i cazzi tua, ‘ns’nnò ti spaccu u’ cirivieddu, u’ attu è miu e ci fazzu nzò chi vuogghiu.
Fui investito da uno schizzo di sangue sul giaccone e sul viso. Il gatto sbattuto contro la cancellata della chiesa si era letteralmente sfracellato. A occhio attento sarebbe stato possibile distinguerne i frammenti sulle basole della piazza, lì, proprio nel luogo dove io sono solito cercare ristoro e riposo. Fui preso da una rabbia che non avevo mai provato, corsi di scatto per avventarmi sul ragazzo. Feci appena in tempo ad afferrargli un braccio che, improvvisamente, mi si annebbiò la vista.
– Un farabutto, lei è un farabutto! Prendersela con una povera bestia è da vigliacchi, è! Maledetto!
Mi trovai disteso per terra, con il sole fin dentro gli occhi. Distinguevo a mala pena sagome di persone in controluce che mi sovrastavano, Non sentivo nulla, avevo solo un forte fischio alle orecchie. Vedevo, però, le loro bocche spalancate, in un’espressione di rabbia.
Ero privo di forze e con un forte dolore alla nuca. Avvicinai le mani alla faccia e mi accorsi che erano imbrattate di sangue. Mi ricordai a quel punto che cosa fosse successo. La scena di prima si sovrapponeva, però, a quella del momento. Riuscii a fatica a mettermi seduto in quello spazio che sembrava essere stato un ring di combattimento tra galli.
– Chiamate i vigili, non può passarla liscia. Quello che ha fatto è cosa del peggiore degli infami.
– Di te sto parlando, pezzo di merda! Sei da ammazzare, sei! Guarda cos’hai fatto!
Ero lì, immobile e muto, quando a un tratto in mezzo a tutte quelle facce comparve un viso conosciuto. Ci misi un attimo ad associare quel volto al ragazzo che, fino a poco prima, aveva sbattuto a destra e a sinistra quel povero gatto. Tra tutte quelle voci, emerse la sua. E lui, indicandomi col fare minaccioso e col dito puntato su di me, gridava accusandomi di essere l’autore di quella follia.
E fu a quel punto, tra quel branco di lupi inferociti, che mi sentii un uomo ineluttabilmente perso.