Il gallo chioccio che fa coccodè. In ricordo di Alfonso Gatto

Articolo di Ivano Ciminari già pubblicato per Eretici

Il mestiere del poeta è cercare le parole, la sua utopia dipingere silenzi inesprimibili.

Pochi ricordano ormai Alfonso Gatto, persino la sua città, la mia città, ha quasi cancellato il ricordo della sua esistenza, la traccia profonda che ha lasciato con la sua poesia semplice nella forma, ma scarnificante nella sostanza, piena di quella salinità che impregna la gente nata con i piedi nell’acqua.

Per i motori di ricerca Alfonso Gatto è stato un poeta, nato, vissuto e morto, che nella sua vita ha scritto qualcosa, un dato di fatto da acquisire con disinteresse, magari scrivendo succinti commenti per giustificare l’abominio dell’oblio.

Tutto ciò è riduttivo fino all’insolenza, perché semmai sotto questo cielo è esistito, un filosofo ed un poeta che ha scelto di scrivere con la fresca innocenza dei bambini, ma di ferirci con la ferocia del significante che tracima dalle righe, questo è stato lui: un uomo venuto dai vicoli che respirano il mare, salernitano per nascita, cittadino del mondo per cultura e sensibilità.

Lo conobbi per caso, quando ero ancora un bambino, sua sorella abitava nel mio palazzo ed io ero amico di Sergio, suo nipote: erano i tempi dei Cugini di campagna, nei quali si scioglievano le trecce ai cavalli, ci si innamorava degli occhi eternamente blu di Lisa e ci si arrapava, in improvvisate discoteche casalinghe, con la voce di Donna Summer.

Erano gli anni fantastici delle Fiat 124, delle nazionali senza filtro, del VOV e dei DJ che si sfidavano a colpi di scoreggianti virtuosismi su poveri dischi in vinile, la mia esistenza era serena, appena consapevole di una realtà che andava modificandosi con le logiche stragiste di innumerevoli fazioni terroristiche.

Ero insomma vergine, pronto per lo stupro, per l’eccidio della mia fanciullesca ignoranza che si consumò proprio a casa di Sergio, quando incontrai il suo sorriso sconfinato, quando ascoltai il suo tono di voce pacato, quando bevvi le sue parole semplici e vere, tanto distanti dall’immagine che mi ero figurata dei poeti: inaccessibili, distanti, a volte incomprensibili.

La sua voce era poco più di uno sgradito orpello, di fronte a ciò che riusciva a trasmettere, sensazioni crepuscolari riempivano infinite praterie di pensiero, fino a quell’istante sconosciute per uno che, appena adolescente come me, non aveva mai incontrato la poesia, se non quella mandata a memoria per prendere un bel voto a scuola.

Probabilmente la mia sorpresa traspariva e, con essa, l’emozione di trovarmi di fronte a lui, e se ne rese conto quasi immediatamente, stava parlando con suo cognato, “l’ingegnere” come lo chiamava mio padre, e si interruppe di colpo.

Aveva l’immancabile sigaretta ai lati delle labbra e due occhi di un azzurro intenso, che cominciarono a sorridere prima che tutto il resto del viso diventasse a misura di bambino, gli chiesi se fosse lui il famoso poeta (allora le scuole medie erano meno feroci e smemorate) e lui mi sorprese rispondendo: “No, sono un gallo chioccio che fa coccodè”. Poi sorridendo aggiunse: “Non badare a quello che dico, i poeti sono sempre un po’ matti o forse sono quelli un po’ matti che decidono di fare i poeti”.

Da allora ho assaporato ogni santo giorno il suo cruento assassinio della parola, crocifissa in sensazioni semplici, perché le sopravvivesse l’emozione ed il pensiero, ho riscoperto l’essenza saracena e marinaresca della mia gente, che lui ha fatto rivivere in un’arte picara, fresca, colorata e rumorosa come i vicoli nei quali, a sera, saliva la brezza dal mare.

Dei vicoli le sue poesie avevano l’inconfondibile afrore, quel rumore di vite che si intersecano, di voci che si confondono, di volti che si sovrappongono fino a diventare un afrore unico, un rumore unico, una voce unica, un unico volto senza patria, senza lingua, senza confini.

Avrei voluto dedicargli le parole che non ho mai saputo neanche immaginare nei miei cosiddetti romanzi, tutti i silenzi che non ho mai saputo dipingere tra le mie povere righe, tutto l’inesprimibile che opprime la mia ignoranza, ma riesco a donargli soltanto gli infiniti silenzi del suo mare e di quel fiume biondo che scorre da millenni e sulle cui sponde si è fatta la storia.

Ma, come troppo spesso accade agli anarchici del pensiero, Alfonso Gatto è fuggito via dalla memoria ingrata, forse colpevole di non essersi mai adeguato ai lustrini di una cultura già allora troppo patinata e vittima di un’apparenza che appiattisce, di inganni che sviliscono l’essenza della poesia.

Non ci crederete, amici miei, ma tra gli scaffali delle librerie più celebrate della sua città, della mia città, non c’è nulla di suo ed è davvero desolante dover prenotare un suo volume ed attendere giorni e giorni per trovarsi tra le mani i versi di uno dei più grandi poeti del novecento.

Eppure, quelli come lui si chiamano Ungaretti, Scotellaro, De Filippo, Bellezza, Merini, Berto, sono figli di un dio dimenticato, ma vero come un fiume che scorre a dispetto di ogni manicheismo o perbenismo modaiolo, sono occasioni perse, rivincite affidate alla storia.

E che inorridiscano pure i puristi del verso, i costruttori ebeti di masturbazioni lessicali, i nani autoreferenziali che hanno nascosto sotto il tappeto la grandezza del secolo breve, quel “gallo chioccio che fa coccodè” è stato un diffamatore, un burattinaio che ha fatto scempio delle consuetudini abusate, un uomo ed un artista che ha avuto il coraggio di sputare in faccia al mondo quelle verità, inaccessibili ai più, che fanno scempio della parola, restituendo a chi ha orecchie per sentire e cuore per soffrire, la sostanza più intima e vera di quel tarlo che è la poesia.

 

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