Il dolore
Racconto di Giuseppe La Licata
Come si può raccontare il dolore, il dolore di un bambino, di un bambino di soli quattro anni, un dolore sordo, violento, implacabile, feroce, muto, un dolore che non può dirsi, senza parole, un dolore che mi aveva strappato la lingua, un dolore che non lasciava scampo alla speranza, un dolore senza confini, senza orizzonti. Restava vaga a tratti nella mia mente la traccia sbiadita di qualche ricordo lontano, appena percettibile, una specie di soffio che accarezza i capelli, e più la rabbia cresceva più il dolore mi conquistava, ancora più ostinato e ottuso, costringendo il mio corpo all’immobilità forzata in una sorta di paralisi chimica. Non sentivo più le mie gambe, le mie mani, le mie braccia, le mie spalle, la mia schiena, il mio sesso, solo un urlo muto si infrangeva tra le pareti della mia testa scuotendo le tempie. Mi trovavo cosi disteso nel tempo senza tempo, su un logoro materasso ispido reso più gentile per via di un lenzuolo che lo avvolgeva. Il dolore nelle sue fasi più acute mi provocava dei minuscoli e impercettibili sommovimenti che interpretavo nel mio silenzioso delirio in piccole schegge di vita. Mi ingannavo, mi prendevo in giro, la mia testa sapeva e al tempo stesso abbracciava la mia innocenza.
L’innocenza della mia tenera età. L’innocenza di una storia senza più storia. Gli occhi erano l’unica mia risorsa, l’unico appiglio rivolto alle cose del mondo, per quanto immobili e attraversati da fitte rapaci riuscivo ancora a vedere. Lo scenario ripeteva se stesso: un soffitto e due pareti di cui avvertivo solo l’ombra. Avevo provato a darmi una ragione della tragedia che il dolore aveva avuto il gusto beffardo di infliggermi. Ma ogni volta che questo pensiero mi attraversava subito mi arrendevo, mi abbandonavo alla stupidità, alla banalità della domanda. Una risposta plausibile non avrebbe di certo allentato la ferocia del dolore. Ma se il dolore io sentivo, se il mio corpo soccombente e ferito era ancora lì, seppur stremato dall’immobilità, una qual fragile forma di vita doveva ancora appartenermi. Il mio cuore era ancora al suo posto, forse malandato, ma pur sempre vivo. Il cuore mi cantava dentro il suo canto. Gli occhi e il cuore raccoglievano la forma affettuosa di una qualche speranza. Mi aggrappavo a questa sottile fune per non cedere a un naufragio definitivo. Il dolore forse non mi avrebbe conquistato del tutto, non mi avrebbe avuto per sempre.
La mia vita aveva sposato la solitudine, eppure mi piace ricordare gli occhi a me rivolti da mia madre che si chinavano sui miei, occhi spesso bagnati da tenere lacrime; ricordo le sue mani che con grande cautela e apprensione mi attraversavano i capelli sperando invano che potessi percepire qualcosa. Lo so, avrebbe voluto far suo tutto quel dolore indicibile, lo avrebbe abbracciato nel manto della sua insanabile compassione, della sua eterna grazia. Ho visto, seppur a tratti confuso e stordito, le mani artigiane di mio padre, cingevano con delicatezza e pudore le spalle magre di mia madre in un abbraccio di amara consolazione. Il suo volto era sprofondato nell’abisso insano di un vuoto, come un pozzo senza fine. Le sue rughe inconsolabili erano pari a fiumi inariditi, fiumi che senza speranza non avrebbero più conosciuto la distesa del mare. Mi giunse chiaro come la sua espressione traducesse spietata il presagio di una rassegnazione inappellabile. I suoi occhi fissi e violenti si inabissavano nei miei, volevano farsi parole, sentivo che si accanivano per dirmi qualcosa, qualcosa che disperatamente auspicava “la fine”, la mia fine, una fine che mi affrancasse definitamente dalla morsa del dolore, perché i loro sguardi potessero finalmente riposare, distogliersi per sempre dalla vista del corpo di un figlio martoriato, violentato da una sofferenza senza ragioni. Non opposi alcuna resistenza a quelle loro attenzioni, ai loro pensieri così estremi ma anche affettuosi; riuscivo a comprendere, a perdonare, solo nella mia testa riuscivo a disegnare un pallido sorriso o anche una carezza da regalare ai loro volti, per ricambiare la grazia della loro sbilenca tenerezza.
Non lo ricordo più, non so nemmeno come, né perché mi trovassi in altro luogo, doveva essere un’altra stanza forse più ampia, inondata da una luce furibonda e accecante, non riuscivo a sottrarmi a quella lama impietosa, non ce la facevo, per quanto mi sforzassi, a chiudere gli occhi, non avevo scampo, quel sole incandescente indeboliva la mia vista e le mie esili forze. Concentrai il mio sguardo sul soffitto, i miei occhi potevano puntare solo in quella direzione, lì la luce era ancora più intensa, ma come in una delirante fantasia mi sembrò di scorgere un tappeto di nuvole sorridenti. Qual era il segno recondito di quell’apparizione? Eppure quell’immagine intensa e rassicurante mi procurava un certo sollievo, mi distoglieva dalla protervia del dolore. Guardavo le nuvole con avidità, con gentile accanimento e fu allora che affiorò alla mia mente un vivido ricordo, un ricordo di quando ancora le mie gambe riuscivano a volare, le mie braccia stringevano gli alberi e la mia voce intonava leziose canzonette; la vita un tempo mi veniva incontro e io la sentivo salda a me; come non potevo non commuovermi? Mi ricordo, sì ora ricordo, di un mio amico tanto piccolo da sembrare un nano con una folta chioma rossa come una foresta. Una mattina mi si avvicinò, puntò il dito in alto in direzione di un folto grappolo di nuvole e mi confidò con un soffio di voce che lassù in alto, ma molto in alto, oltre la soffice cortina di nuvole e molto oltre ancora, c’era un tipo strambo, un po’ matto, un po’ strabico,un tipo comunque speciale, un tipo di nome Gesù. E che potevo capirci io di tutta questa storia? Di questo tipo Gesù attorcigliato alle nuvole? Il nano, si dice, fosse esperto nel raccontare bugie e io raccolsi il suo dire con un sorriso finto, con una ipocrita smorfia.
Dal letto che da lungo tempo accoglieva la dolorante rigidità del mio corpo continuai a fissare il tetto di nuvole che non si allontanava dal mio sguardo; le nuvole mi riportarono alla storia del nano, alle sue parole o forse alle sue bugie o forse ancora alla sue insondabili verità. Costrinsi in uno spasmo violento i miei occhi per infrangere la coltre di nuvole, per attraversarla, per giungere oltre, sempre più oltre, oltre quel confine che mi separava dal mistero di un sogno, di un sogno, o forse di un presagio, lì dove quel tipo dallo sguardo un po’ matto, un po’ strambo, quel tipo Gesù insomma, avrebbe potuto sentirmi, ascoltare il mio respiro, il mio dolore o ancora, chissà mai, rivolgermi uno sguardo. Le mie parole restavano mute, inascoltate, e il cielo era ancora più muto, insensibile. Se c’era, dov’era quel tipo Gesù così sordo e distante, immerso nell’ombra di una imperscrutabile oscurità? Forse il suo sguardo distratto era rivolto altrove, forse occupato da ragioni più grandi delle mie, più grandi del mio dolore. Quanto grande può essere il dolore e forse quanto piccolo può essere il mio, di fronte alle tragedie immonde della vita? Quanta cura meritava la mia sofferenza al cospetto dello sguardo di Lui? Occorre un’infinita pazienza nell’attesa della nostra cura, a ognuno il suo turno. Tra tutte le ragioni plausibili al grande silenzio del Cielo una si fece spazio con urgenza nel mio flebile pensare. Forse era Lui il grande dolore del mondo, il dolore che non risparmia nessuno. Era Lui, quel tipo strambo, strabico e misterioso, che accoglieva nel suo sofferto sorriso la fatica e tutte le prove della nostra precaria esistenza. Restavo grato alle nuvole e per la prima volta sprofondai con sollievo in un sonno che non conoscevo da tempo. Anche i sogni tornavano ad appartenermi.
Per quanto tempo ho dormito?
Per quanto tempo ho sognato?
Ancora una volta so di essere da un’altra parte, ancora una volta non so perché e per come; ma in questo altrove sento che ci resterò per sempre. Qui, lo so, avrà fine il mio viaggio. É per via di questa pace silenziosa, di questa immota sospensione, di questo distacco dalle cose del mondo, che la mia congettura trova salda conferma. Qui ha inizio un’altra storia, un inizio che è subito fine, dove la stazione di partenza del mio treno è già il suo traguardo. Eppure da qui scorgo le fragili tracce della vita un tempo trascorsa. Qualcosa è mutato nel mio corpo, il dolore si è a poco a poco sbiadito, è rimasta soltanto lontana la scia di un flebile ricordo, il ricordo di un’insulsa violenza; ora una specie di allegrezza mi scuote, ma il mio corpo resta ancora lì, schiacciato al suolo, immobile, privo di vita e di respiro. Mi sorprende il profumo di questo giardino, di quest’erba e dei fiori, mi pare di poter abbracciare la maestosa bellezza degli alberi, e ancora le nuvole, le nuvole tornano al mio sguardo, custodi da tempo del mio breve viaggio, il mio ultimo viaggio. Avrei sempre voluto morire, ma il dolore mi aveva sempre distratto.