Il Conta-storie. Un Racconto di Antonella Perrotta
Racconto di Antonella Perrotta
“Venite, gente! C’è il contastorie! Venite, venite, gente!”
Sono un contastorie.
Vivo per le vie. Un po’ di qua, un po’ di là, dove capita. Non ho padroni.
Il mio nome non ha importanza. Io sono le storie che racconto. Le desidero, le cerco, frugando tra le memorie degli uomini, dentro i portoni socchiusi, fra le pietre ruvide delle vinèdde, tra le mura rugose segnate dalla vecchiaia e quelle lisce che ancora sanno di cemento, nelle campagne assolate, sulle sponde delle fiumare, tra i canneti che mormorano al vento, fra le panche nelle chiese e fra i tavolini nei bar, negli sguardi, nelle movenze, tra le voci e le risate e le urla e i pianti custoditi e, poi, rilasciati dall’aria.
Tutto mi parla. Tutto mi racconta.
Io svelo, rivelo, confido, tramando, trasfiguro, faccio giustizia, denuncio l’ingiustizia, ammazzo, risuscito, sposo, battezzo, rendo possibile l’impossibile e irreale il reale. Io regalo sogni e speranza, sapienza e conoscenza. Grazie a me, tutto esiste e sopravvive, i sentimenti acquistano voce, le persone diventano eterne, le loro vite si trasformano in esempio o monito.
Mi danno del parolaio, del girovago, del vagabondo. Ma cosa sarebbero gli uomini senza di me? Cosa sarebbero gli uomini senza un racconto? Materia senza anima, bucce senza polpa, teste senza pensieri, lingue senza parole. Vite private della fantasia, della memoria, dell’esperienza, della consapevolezza. Niente sarebbero.
Sto su questa piazza, adesso. Il monumento ai Caduti piange in solitudine, coi fiori secchi adagiati alla base. Le case trasudano parole, mentre i panni stesi ondeggiano al vento. Le persone vanno di fretta. Non hanno tempo per fermarsi ad ascoltare. Ma io faccio rullare il mio tamburo. Schiarisco la voce.
“Venite ad ascoltarmi, gente! Venite, venite! C’è il contastorie!”