Il coglione. Francesco Gallotti e quelli che hanno capito tutto fin troppo
Recensione di Martino Ciano
Magari ne incontri uno ogni tanto, ci scambi due chiacchiere e pensi anche che il mondo non è del tutto andato a male. Sto parlando di quelle persone che ancora la prendono con filosofia, nonostante le avversità; che sono disperate ma ironiche; che con sguardo ingenuo si addossano troppe responsabilità per come vanno le cose. Insomma, ogni tanto conosci un coglione e ti rendi conto che coglioni lo siamo tutti, chi più chi meno; dipende solo da come si reagisce agli accidenti della vita.
Partiamo dal fatto che il coglione è uno che si lamenta. La sua era storica gli fa schifo, ma lui se la fa piacere. Con spirito stoico, questo anti-eroe ha imparato a godere dei suoi tormenti. D’altronde ogni uomo ha sempre parlato male della propria epoca. Lamentarsi è una costante dell’essere umano. Faccio un esempio, nei giorni scorsi mi è passato tra le mani il libro di un autore del XVII secolo, anche lui per pagine e pagine non fa altro che lagnarsi di come le cose fossero ormai andate a puttane; di come anche i mecenati non fossero più illuminati, ma solo ragazzini viziati.
Il coglione è anche un tipo acculturato e amante della conoscenza. Quando siede in un bar di paese e parla dei suoi sogni e delle sue speranze appare come un individuo decadente e romantico. La società lo vede perlopiù come un perdigiorno, ma lo era anche Oscar Wilde e per un coglione questa similitudine è un vanto. Discute delle sue aspettative con gli amici, coglioni anche loro, con un sorriso amaro; eppure, in lui è forte la speranza che tutto cambierà, che tutto andrà secondo i suoi piani, anche se lui non muoverà un dito qualcuno edificherà il mondo intorno così lo ha immaginato. Mal che vada potrà lamentarsi. Ma attenzione, la sua non è inettitudine, bensì ha capito quali sono le regole del gioco all’interno del piccolo paese di provincia, soprattutto se questo paesello sta nella regione più disastrata d’Italia, ossia la Calabria. Coglioni calabresi ce ne sono tanti, solo che quest’ultimi, a differenza di quelli che troveremo tra le pagine di questo romanzo, sono stati capaci di sfruttare l’occasione magari ricevendo un posto da statale, a farsi eleggere alla carica di sindaco, a entrare nella sanità pubblica e chi più ne ha più ne metta.
L’appellativo di coglione, quindi, Gallotti lo rivolge prima di tutto a se stesso, perché ha deciso di rimanere e di provare a dare qualche spunto di riflessione. Ai coglioni piacerebbe occuparsi di attività culturali, ma non perché si credono intelligenti (l’autostima non fa parte di loro), ma solo perché la trovano più affine al loro modo lento e goffo di gestire la vita. Siccome sono cerebrali, i coglioni si fanno mille problemi anche se devono spostare un bicchiere da un punto A a un punto B. Non sono reattivi, pragmatici, impavidi; no, sono lentissimi. Hanno bisogno di sicurezza, di protezione e di comprensione.
Francesco Gallotti vive a Diamante. Lui si sente il capo-coglione, me lo ha detto quando ci siamo incontrati. Ho risposto che anch’io sono un coglione e che a quarant’anni, per sembrare meno coglione, mi sono fatto crescere la barba. Grazie alla barba sono diventato un coglione arcigno. Gli ho anche spiegato che secondo me, il suo romanzo è la descrizione perfetta del moderno idiota. Sempre secondo me, anche Dostoevskij, invece de L’Idiota, oggi avrebbe scritto Il Coglione.
Insomma, il romanzo di Francesco dipinge perfettamente un fenomeno contemporaneo: l’emarginazione del coglione, dell’uomo che guarda e passa, perché ha capito che non ne vale la pena. Tanto, ogni coglione sa come poter vivere dei propri sogni, senza bisogno di realizzarli a tutti i costi e, forse, è proprio questo che dà tanto fastidio: viversi il proprio tempo senza dover troppo pensare a come cambiare le cose. Magari si muore prima a causa del tormento interiore, ma chissenefrega, finché c’è vita c’è speranza… con tutte le contraddizioni del caso. Giusto?