I principi del diritto… da principi a ranocchi
Articolo di Antonella Perrotta.
Accadde secoli e secoli addietro, agli albori dell’umanità, che si avvertì l’esigenza di norme che regolassero il vivere sociale. Dapprima, fu il νόμος (nòmos), la consuetudine, la legge non scritta, ad adempiere alla funzione. Il νόμος diventò, poi, la legge dell’uomo, contrapposta a quella della natura, fino ad arrivare al complesso di norme che composero il diritto, directum da dirigere, nel senso originario di indicare una direzione, prima, fino al significato moderno di ciò che è retto e giusto, poi.
Ci sono voluti secoli, durante i quali filosofi, economisti, santi ed eroi, hanno speso parole, versato sangue, condotto battaglie di pensiero e di lama, per arrivare a definire in forma scritta ciò che è da considerarsi giusto ed equo nei rapporti interpersonali e in quelli tra il popolo e chi lo amministra. Anzi, giusto è troppo. Nulla è giusto in questo mondo, se non fra le dita di quella Nemesi che regola i fili dell’universo. Diciamo, accettabile. Accettabile a un vivere civile, che sta appresso a un concetto volubile e plasmabile di civiltà, elaborato nel tempo della Storia.
Possiamo dire che il nostro vivere civile, in epoca postbellica, è rimasto strettamente ancorato ai principi di diritto delle Costituzioni, la nostra in primis, e dei Trattati internazionali: una serie di norme scritte che si inchinano al principio cardine di legalità, disposte, a loro volta, in un ordine gerarchico. Perché l’ordine è necessario se si vuole garantire l’ordine. Ciò, fino a quando, i legislatori contemporanei non hanno pensato che i filosofi, gli economisti, i santi e gli eroi che hanno speso parole, versato sangue, condotto battaglie di pensiero e di lama, sapessero di stantio.
Da civilista (i penalisti, gli amministrativisti, i costituzionalisti avranno anche il loro dire), da quel che ho memoria, fu il 1995 l’anno delle incertezze. In quell’anno, constatarono che i processi civili erano lenti e pensarono, quale soluzione, di smantellare in parte e riscrivere ex novo il codice di procedura civile. D’altronde, alle novità ci si fa l’abitudine, presto o tardi. Nessuno di loro pensò che si sarebbero dovuti anche implementare gli organici dei magistrati in carriera, dei cancellieri, del personale giudiziario in genere, e, magari, mettere mano all’edilizia deputata allo scopo. Bazzecole. Sarebbero bastati i magistrati onorari, la categoria new entry, cui non venivano garantiti né contributi pensionistici né stipendio. In fondo, l’Italia, quando vuole e in ciò che vuole, è votata al risparmio.
Ma, poco tempo passò che neanche il riformato andasse bene. Un taglio qui, uno lì, una giuntura, una pezza, giusto la modifica di un comma o di un articolo, al massimo di un intero capo, diventò abitudine, perché le cose si vedono sul campo e, prima, si provano e, poi, si aggiustano via via, mentre l’assenza di un intervento organico della materia, qualunque essa fosse, ingenerava l’impressione che i legislatori contemporanei, o chi per loro, non ne fossero capaci. Agli operatori del settore, alla domanda: “Ma come funziona?”, non restava che allargare le braccia, ché oggi è così e, domani, non si sa. Giustizia certa, chiamasi …
Fu, poi, il tempo del colpo di fulmine. I legislatori guardarono oltreoceano, verso l’America, la sacrosanta America, dove le mediazioni, gli arbitrati, le ADR, acronimo di Alternative Dispute Resolution, sono strumento deflattivo delle controversie. Pensarono andassero bene anche qui da noi. Avrebbero, comunque, evitato di spendere soldi con l’implemento degli organici. Concepirono l’ADR come condizione di procedibilità in determinate materie, sì che le parti avrebbero potuto adire i tribunali soltanto dopo mesi e mesi spesi nel tentativo di conciliazione. Che furbata l’ADR!
Dimenticarono, i cari legislatori, che la nostra cultura è romanistica, il nostro sistema non è di Common Law come quello anglosassone e che, diciamolo, il popolo italiano un po’ litigioso è. Forse, perché di cose storte ne vede talmente tante che solo i tribunali gli restano. Dimenticarono pure che gli americani sono più pratici, più parchi nell’uso della carta e delle regole formali tanto care al Belpaese. Fu, in pratica, come voler condire gli spaghetti col ketchup. Le ADR non fecero mettere d’accordo nessuno, o quasi, allungando ancora di più i tempi del processo e collassando il sistema nervoso delle parti e degli operatori del diritto. Ancora oggi è così.
Poi, venne la digitalizzazione della giustizia. Che bella cosa, la digitalizzazione! Fa risparmiare tempo e carta. Se non fosse per quel maledetto rigo da rispettare, quella firma a destra e non a sinistra, quell’ingolfo della forma a discapito della sostanza, insomma, ché chi bada alla sostanza se bisogna perder tempo a contare le righe?
E, poi, da ultimo, venne il Covid. E fu capolavoro legislativo: quello emergenziale. Quello propinato con la faccia contrita e la lacrimuccia agli angoli dell’occhio, mentre, a suon di DPCM, atti di un solo soggetto non rappresentativo della volontà popolare, costringeva gli italiani in casa, le attività a calare le saracinesche e, a suon di decreti legge, non ancora convertiti in legge, elargisce ora lasciapassare sanitari talmente illogici da suscitare il legittimo dubbio che, di sanitario, poco abbiano. Quello che prevede lo scudo penale (quando mai in diritto è esistito uno scudo penale?) per i medici e gli operatori sanitari per le conseguenze, anche mortali, derivanti dall’inoculazione dei sieri, implicitamente ammettendo che, di conseguenze, possano essercene, senza, però, che nessuno ne sia responsabile, né i medici, né le Case farmaceutiche, né lo Stato stesso. Quello che delle normative europee vincolanti per gli Stati membri, della gerarchia delle fonti normative, del valore della riserva di legge costituzionalmente sancita e della legge stessa, espressione della volontà parlamentare e, quindi, della volontà del cittadino, ne fa fazzoletto per asciugare le lacrime. Quello che dei principi della Costituzione fa finta di non aver memoria. Ma, d’altronde, è emergenza.
Allora, di fronte a tutto questo, ripetutamente questo, è così insensata la pretesa che l’azione dei nostri legislatori sia competente, coerente, risolutiva o quasi, rispettosa di quelle stesse norme cui si chiede osservanza ai cittadini?
Di fronte a tutto questo, ripetutamente questo, è così insensata la domanda se mai lo Stato abbia avuto a cuore gli interessi dei cittadini, se l’abbia a cuore anche adesso, se mai si è assunto le responsabilità del suo operato o se additi soltanto i singoli a responsabili del mal funzionamento della qualunque, se i colpi inferti ai principi che dovrebbero garantire il vivere civile segnano il divenire di un nuovo concetto di civiltà regolata da una diversa νόμος – che, di nuovo, ha poco e, di antico, tanto – che potrebbe anche non piacere, salvo, farci la cattiva abitudine?
E resta da chiedersi che fine faranno i filosofi, gli economisti, i santi e gli eroi che hanno speso parole, versato sangue, condotto battaglie di pensiero e di lama. Credo, nuovamente sepolti e pure senza lacrime. Succede quando la dimenticanza fa da padrona, quando l’accondiscendenza segue alla manipolazione o all’indifferenza, quando il dire e lo sbraitare hanno la meglio sul pensare.
Ma, questo mio, è soltanto un incubo, in cui intravedo prìncipi fuoriuscire a passi di danza dai codici e dai testi di legge che mi stanno davanti e trasformarsi in ranocchi desiderosi di un bacio accondiscendente che mai gli darò. Perché, nella loro trasformazione, scorgo un pericolo.
Mi sveglio dall’incubo, ma perdo, comunque, il sonno.