Paolo il caldo. Vitaliano Brancati e il peccato di lussuria

Articolo di Martino Ciano

Ha il sangue caldo Paolo Castorini, è una qualità della sua famiglia, tranne per suo padre Michele che invece è così riflessivo, cupo, chiuso in sé, con lo sguardo rivolto verso quelle reminiscenze platoniche che lo fanno sentire un’anima in pena gettata sulla Terra. Anzi, quasi si odia suo padre per essere così freddo, insensibile, incapace di godere delle cose del mondo. Fin da bambino, Paolo avverte la necessità di penetrare la carne della donna, di dimostrare la sua virilità. Sente dentro qualcosa che lo prende, lo eccita, gli fa alzare la pressione, lo costringe a possedere la femmina. Ma questa necessità è anche una questione di classe sociale, di privilegio che la natura, forse Dio stesso, ha accordato alla sua famiglia; infatti, nella pusillanime Catania, la nobiltà ha il diritto di godere della vita, di mostrare il suo edonismo, di farsi beffa di chi muore di fame, di lasciare che tutto resti così, rispettando quel disegno divino in cui c’è chi soffre per tutto e chi può disporre d’ogni cosa.

E la morte?

Temono la morte i Castorini. Questo mondo è bello per chi può permettersi ogni cosa; la vita dovrebbe essere eterna per i nobili. La morte è un madornale errore, ma perché pensarci? A Paolo, questa lezione gliela impartisce lo zio Edmondo, che tra un bicchiere di liquore e l’altro invita il nipote a prendersi tutto quello che può, a non sprecare neanche un secondo di vita dietro le questioni sociali. La Prima guerra mondiale è finita, il Fascismo avanza, ma chissenefrega; non bisogna pensare a queste cose, tanto meno bisogna dar credito a quei comunisti che vogliono emancipare i contadini. Loro sono rozzi, pensano solo a lavorare per mangiare. I nobili invece hanno la fortuna di essere ricchi, di poter avere ogni cosa, soprattutto la carne delle femmine. Solo Michele, il padre di Paolo, è un tipo strano; un uomo che addirittura la morte se la procura. Lui soffre a ogni respiro. Si sente un’anomalia, perché il pensiero è più forte della carne e le pulsioni sono un problema. Michele infatti fa parte dei siciliani freddi: coloro che si arrovellano il cervello in lunghe riflessioni, che sono annoiati da ogni cosa; come se il mondo fosse grande quanto una stanza della loro casa e non abbia più nulla da rivelare. Ma se i caldi vincono la noia grazie alla lussuria, i freddi sono solo capaci di stare in silenzio, di ordire rivoluzioni che nascono e muoiono nella loro testa.

Roma e la lussuria

Paolo se ne va da Catania ancora giovane. Sceglie Roma per ricongiungersi al suo amico d’infanzia Vincenzo. Anche Vincenzo è un caldo ma con moderazione, preferisce scrivere e vuole diventare un letterato. Ama le metafore e le similitudini, trasforma cose in altre cose. Il nobile erotomane Paolo introduce nella sua vita l’arte: una cosa misteriosa come la carne della femmina. Anche lui pensa a tante cose, un po’ come suo padre, ma non riesce a metterle su carta. Pure nella Capitale soddisfa la sua fame di femmina, ma si imbatte in una mentalità diversa, in cui le donne sono un po’ menefreghiste, più libere, meno complessate; tant’è che qualcuna di queste gli dà anche qualche lezione e il suo orgoglio da maschio ne risente. Fatto sta che pian piano in lui si agita il mare del pentimento e ne ha paura. Che sia questa la malattia di cui ha sofferto il padre?

Il ritorno a Catania

Quando Paolo torna in Sicilia, terra per cui ha provato disprezzo nel corso dei suoi anni romani, senza riuscirsi a spiegare il perché di quel risentimento, nota che nei i suoi familiari la paura per la morte è diventata un’ossessione. C’è chi si chiude in soffitta per sfuggirle, chi prega, chi va alla ricerca di pillole miracolose. Persino la madre di Paolo confessa che dopo la morte di Michele, si è data alla pazza gioia e che quella gioia le manca. Ma Paolo è ormai cambiato. Il fuoco si è assopito, la fiamma non arde più come prima, in lui si agitano i venti nostalgici, la decadenza, il senso del tempo che scorre, le lacrime delle cose, la disperazione delle rovine.

Decadentismo e critica sociale

La penna di Brancati ha una forma malinconica in cui si avverte la potenza del tempo e del suo incedere. Su tutto agisce il tempo: sui valori, sui costumi, sulle

cose, sulla coscienza. Paolo è un uomo che sente lo spaesamento, che viene risucchiato dalla Storia. In un primo momento non se ne accorge, la lussuria lo salva e lo protegge da questo fiume in piena che spazza via il mondo che fu; persino in Sicilia, isola incantata in cui nulla sembra muoversi, tutto è cambiato. Ma quando anche la seconda Guerra mondiale è passata e le rovine sono ancora davanti agli occhi di tutti, ecco che Paolo si ammala della freddezza del padre. Ha ormai più di quarant’anni, non esistono più femmine, ma donne. Tra le sue amiche c’è Ester, la senatrice comunista che gli aveva parlato della povertà delle classi contadine, di quell’inedia che lui ha sempre guardato da lontano. Qualche volta i contadini e i servi avevano risvegliato in lui qualche rimorso, un po’ di vergogna per la sua condizione privilegiata, ma nient’altro; tutto è passato velocemente. Si accorge però che il suo mondo è finto, velato dall’ipocrisia. E mentre a Catania le case dei nobili cadono a pezzi, a Roma nascono palazzi. Brancati negli ultimi capitoli sembra quasi un Pasolini che incontra il D’Annunzio delle Vergini delle Rocce; e non è un caso che uno degli ultimi momenti del libro sia dedicato all’incontro tra Paolo e una prostituta in via della Conciliazione, davanti alla basilica di San Pietro. Così, Dio è ormai un istinto; ma sono istinti anche la religione e l’esasperata moralità che altro effetto non hanno se non quello di spingere alla liberazione d’ogni costume e di ogni pulsione. Non è allora la passione a rendere l’uomo simile alla bestia, ma la lussuria; questo è l’unico peccato di cui bisogna aver paura. Paolo Castorini è un lussurioso che vuole convertirsi. In lui si muove la necessità della degradazione, come per quei santi che si infliggevano punizioni.

Conclusione

Vitaliano Brancati morì il 25 settembre 1954., Paolo il Caldo venne pubblicato un anno dopo. Due giorni prima di entrare in sala operatoria, per un delicato intervento, lo scrittore siciliano scrisse una breve nota nella quale dava precise indicazioni. Al romanzo mancavano altri due capitoli, ma poteva essere comunque diffuso. Brancati sentiva che non avrebbe superato l’operazione, nonostante tutto lascia al pubblico la sua opera più matura. Non c’è in questo libro la carica ironica dei precedenti, anzi ha tinte decadenti. Lo scrittore oggi è considerato uno dei grandi della letteratura italiana, ancora per5ò resta poco diffuso… ma questo è un altro discorso.

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