Gianfranco Cefalì, Il giorno in cui abbiamo pianto, Dialoghi
Recensione a cura di Martino Ciano – già pubblicata su Gli amanti dei libri
Entrare nella profondità dell’animo umano con le parole vuol dire mettere piede in una selva da cui si esce rinati. L’opera di Gianfranco Cefalì è una discesa negli inferi, in cui i pensieri diventano presenze dannate con cui bisogna necessariamente interloquire.
Lo scrittore calabrese racconta di due persone che stanno ai margini: una prostituta e un uomo che ha perso tutto e che, proprio per questo motivo, non ha più nulla a cui aggrapparsi se non sé stesso. Pertanto, Il giorno in cui abbiamo pianto è un romanzo che parla di anime sedutesi al confine della razionalità e che hanno ormai raggiunto una lucidità estrema che si è svestita anche della speranza.
Ma entrambi i protagonisti vogliono salvarsi? Vogliono davvero ricominciare?
Il tema del romanzo di Cefalì è la memoria, anche se qui non è usata alla maniera di Proust, ossia, come “strumento” di recupero e di comprensione del proprio mutamento esistenziale, ma è un’onda d’urto spinta da una misteriosa volontà annullatrice che disintegra tutto ciò che resta del passato, anche quei ricordi che sono simboli della metamorfosi.
Cefalì fa uso di una scrittura ricca di intrecci, un vero e proprio flusso di coscienza in cui le parole si legano liberamente. Una sillaba tira l’altra, fin quando i concetti si mostrano nella loro “ambivalenza”, in una unità in cui “bene” e “male” si abbracciano, si comprendono, si azzerano.
In un romanzo in cui viene annullato “il giudizio”, ed è questa cosa buona e giusta, ogni azione passata riposa nel tempo. È semplicemente un avvenimento. Pertanto, Il giorno in cui abbiamo pianto non è né un memoriale né il piagnisteo di due persone che hanno bisogno di fare “punto e a capo”, ma diventa una presa d’atto, un’intima liturgia in cui ci si mette a nudo… e poi, chi vivrà vedrà.