Gente di Dublino tra i luoghi della Riviera dei Cedri
Articolo di Saverio Di Giorno
Abbiate pazienza e assittàtivi. Accomodatevi. I maestri come Camilleri insegnano a mescere le lingue, a versare un po’ di dialetto nell’italiano come alcuni anziani fanno con il vino quando è poco e non basta per tutto l’anno. Allungare l’italiano è d’obbligo per raccontare di storie, di pensieri e di sentimenti che non hanno traduzione. Dunque, assittativi. È difficile scegliere da quale storia partire.
C’è ad esempio la storia di Evelina cresciuta tra i porci e la terra fin da quando aveva cinque anni. A casa il padre faceva il padre come pensava si dovesse fare. Con il silenzio e lo sguardo accigliato. La madre morta di parto perché l’ospedale all’epoca non c’era e cuvernava (allevava) il fratello come le galline. Poi incontra un ragazzo, biondo che parla una lingua sconosciuta e vuole portarla in barca, ma non dietro l’isola di Dino dove va lei, dietro terre che nemmeno si vedono. Può finalmente farla finita. E la notte raccoglie tutto, prende e arriva alla stazione a prendere il treno. Poi si guarda intorno vede donne con i cappellini, fa fatica a leggere cosa c’è scritto nei cartelloni, si sente stupida. Si agita. Torna a casa alla sua sicura fatica quotidiana.
C’è pure quell’altro episodio che riguarda Giovanni. Persona in vista nel paese, proprietario di un piccolo locale nell’entroterra. Era stato consigliere comunale. Vicino a quelli che il mormorio dei vicoli definisce “pezzi grossi”. Ora fa da ufficio stampa al nuovo candidato a sindaco e dei ragazzetti pieni di entusiasmo e con gli occhi sgranati gli raccontano fatti sull’avversario. Fatti, accordi che se pubblicati possono determinare la vittoria. Ma lui calma gli animi. Facciamo la campagna come al solito, non c’è bisogno di tirare fuori queste cose. Ma perché? Chiedono i quatrari, e perché … perché è sempre meglio avere qualche segreto per avere qualche favore, perché altrimenti lo stesso atteggiamento gli avversari lo possono riservare a te, perché poi infondo ci conosciamo tutti e così con i soliti perché. “Dovete crescere”. E uscì per andare al bar.
Ancora uno, l’ultimo. Carlo: un povero cristo che si divide tra il cantiere e la famiglia. I debiti avevano consumato i risparmi e l’alcol e la rabbia il fegato. Al bar era un continuo alternare di bicchieri e lamentele contro il padrone che si fa la barca e “u culu gruoss” mentre non paga i dipendenti, contro Gino che ancora non gli aveva dato quanto promesso e quindi non aveva senso votarlo. A casa poi il rito della tavola intorno alla quale sparlare degli amici che si lamentano sempre ma stanno meglio di lui. Quel sabato, come ogni sabato, sarebbe stato l’ultimo, si sarebbe licenziato! Il fatto è che quando si avvicinava all’ufficio una volta gli scappava la pipì, un’altra volta era troppo tardi e quella volta che si era deciso il capo non c’era. Poi la domenica in Chiesa tornava stringersi il segno di pace con i colleghi e ricominciava il lunedì dicendo che non avrebbe fatto la fine loro, che presto sarebbe partito e avrebbe raggiunto i figli. Il treno ripartiva e al cantiere tornava come tutti. Gli amici esasperati dalle lamentele una sera, d’accordo con la moglie, dopo un’ubriacatura lo convincono che sia stato in coma un mese. Nel frattempo, loro avevano cambiato ditta licenziandosi in massa. Il lunedì Carlo bussò alla porta del capo e gli disse addio. Non poteva mica ora far la figura dello scemo dopo che si era lamentato una vita! L’unica dimissione di quella ditta fu Carlo. Gli amici risero per mesi e lui andò in giro dicendo che l’aveva fatto, si era licenziato, non come i colleghi senza “ficatu”… e chissà perché poi alcol e coraggio vanno ad incontrarsi nel fegato.
Di racconti del genere il libro Gente di Dublino ne è zeppo. Sì, perché Carlo in realtà si chiama Karl ed Evelina si chiama Eveline e l’isola di Dino è un isolotto davanti le coste nordeuropee. Il resto è uguale. Joyce racconta di una società decadente. Quella di Dublino, appunto. È stato necessario cambiare qualche nome e qualche luogo geografico per avvicinare gente così lontana da noi. Altrimenti è difficile capire perché questi uomini non agiscono, non si ribellano, non cambiano. Uomini deprecabili e miseri la cui nebbia avvolge gli occhi e il respiro. Nella Dublino di Joyce ci sono donne che pur maltrattate stanno per fuggire ma non aprono la porta alla fine, ragazzi pieni di talento che poi però finiscono dietro un ufficio a mettere timbri, uomini ridotti a vecchi arnesi nei cantieri che non ce la fanno più. Poi però ce la fanno almeno un’altra giornata e poi un’altra. E poi un’altra ancora. In quel libro e in quella società nessuno riesce mai accusare un altro, tutti si fanno i complimenti in pubblico e partecipano agli eventi, ma a casa poi si sparlano a vicenda. Tutti la domenica si ritrovano in Chiesa con la famiglia e il lunedì nello sgabuzzino con l’amante. I professionisti elogiano tutti la polizia quando arresta drogati, prostitute purché non siano le loro prostitute e i loro figli, ma odiano la polizia quando indaga sui loro bilanci. Esaltano la vita semplice e gli antichi valori contadini da cui provengono ma fanno i debiti in carrozze e ristoranti e fanno di tutto per far dimenticare i loro nonni contadini.
Ecco, se avete voglia di scoprire una società diversa, per evitare di diveltarlo – quella dublinese dell’Ottocento appunto – piena di ipocrisia, valori decadenti, affossata da problemi e immobilismo e dove se c’era un cambiamento era solo per puro conformismo (come Carlo) allora Gente di Dublino di Joyce fa per voi.