L’elefante di Amantea contestava la Calabria. Ve lo giuro

L’elefante di Amantea contestava la Calabria. Ve lo giuro

Articolo di Saverio Di Giorno. Foto tratta dal video virale circolato sul web. I fatti sono accaduti ad Amantea, in provincia di Cosenza, sulla Ss18, venerdì 28 luglio 2023

L’ho visto anche io l’altro giorno. E meno male che l’hanno visto in tanti, altrimenti avrei pensato che fosse un miraggio dato dal caldo. Intendo, l’elefante che passeggiava come un vecchio stanco per la strada di Amantea. La sua immagine ridisegnava i bordi della superstrada: eccola l’immagine della libertà.

Uso proprio questa parola, onestamente poco pratica. Poco maneggevole. Scivola, sbrodola da tutti i lati quando provi a tenerla in mano, però è difficile trovarne una più adatta. E non parlo certo di libertà per la romantica storia che vuole questi animali del circo rompere le loro catene e incamminarsi magari verso i loro campi elisi africani. Sarebbe ben poca cosa questa libertà stordita, drogata, che barcolla incerta e senza direzione per una strada caldissima. Questa è la libertà dei tanti trentenni che affondano in Calabria e non trovano altro modo di uscire se non entrando nei buchi delle vene. Quell’elefante era l’immagine della libertà, perché era un’immagine sbagliata.

Quello non era certamente il suo posto. Eppure, vederlo poggiato sull’asfalto, come apparso dal nulla, ridisegnava il paesaggio dietro. In qualche modo, per trovargli una ragion d’essere occorre riorganizzare tutto il resto. È come quando si accostano due realtà stridenti. Il primo film di Star Wars è del 1977, quando, in Italia, Andreotti era al suo 3° esecutivo e Leone presidente della Repubblica. L’Australia è grande quanto tutta l’Europa e Napoli e New York stanno sullo stesso parallelo, però una città ha grattacieli e neve e l’altra un golfo soleggiato e 3000 anni di storia. Ancora, Gerusalemme è a 3 ore di volo da Roma, la stessa che per Oslo. Dietro l’angolo. A Oslo danno il Nobel per la pace, in Palestina si combatte per la pace. Entrambe alla stessa distanza. Alla stessa distanza che il treno impiega per salire da Scalea a Napoli. Quando ci si trova a soppesare queste cose deve ripensare i suoi concetti di lontananza, di centralità. Di tempo e di spazio. Di normalità, soprattutto. Perché se avviene che a tre ore di distanza uno stato segreghi l’altro e, contemporaneamente, nell’altra direzione tutti i diritti civili ed economici sono riconosciuti, uno deve chiedersi anche cosa ci sia di normale nel proprio luogo. Ecco, quell’elefante che passeggia là è tutto questo.

Un’epifania, un’apparizione. Sarebbe stato uguale che vederci un grattacielo di 300 piani oppure una statua di un Buddha. Perché se è vero (ed era vero!) che là c’era un elefante, allora per un attimo la mente deve ricredersi sul resto: se lì c’è un elefante allora cosa c’è di sbagliato? Quel parco abusivo a picco sul mare? Dopotutto, è quello forse l’elemento estraneo: tolto quello, l’elefante, le steppe e gli uomini neri in bicicletta di ritorno dallo schiavismo delle aziende calabresi con le loro buste di plastica hanno un’armonia. Oppure, è lo sfondo che stride: la vallata del promontorio sfregiata da appalti rubati, cartelloni pubblicitari messi là da aziende borderline e immondizia mai raccolta. O quelle sbagliate sono invece le auto dove siedono grondanti di sudore automobilisti di ritorno dal cantiere? Viene quasi voglia di fermare la macchina, scendere e correre fino in fondo allo sfondo di questa immagine e sperare di bucare il telo dove ci sono disegnati alberghi, case e cantieri infiniti: strappare tutta la scenografia di cartapesta e scoprire che quello autentico è l’elefante. E invece poi basta rifletterci e si capisce che entrambi sono veri: però mi aggrappo stretto all’idea che quello autentico è solo uno ed è l’elefante. Il resto è circo appunto con i suoi ruoli.

Fine del delirio. Però quell’elefante lì, da solo, era l’immagine più bella della contestazione. Perché non era pensata, non era organizzata. Contestava e ribaltava tutto, ma non con le parole, non con i pensieri. Tutto quello che è pensato: sia essa una manifestazione, un sit-in, un sindacato, una denuncia, un libro è necessario (quando lo è), ma diventa un’altra forma, un’altra gabbia. Risponde ad altre regole e diventa potere che si contrappone a potere. Lui invece non denunciava, non manifestava, non contestava: era lui la denuncia, la manifestazione, la contestazione: semplicemente perché era diverso. Era altro. Non era l’alternativa, ma l’alterità. Non poteva che fare cosa diversa dal contestare. La sua stessa presenza bastava e metteva in discussione il resto.

È difficile essere altro da quello che si è. Si può smettere essere calabresi? No, si è per forza calabresi, e cioè o arroganti criminali o onesti schiavi. È difficile almeno quanto assomigliare ad un elefante. La forma di libertà forse più avvicinabile è quella bagnata e sporca del cane randagio. Strisciante lungo i muri, scacciato ed in eterno movimento. Eternamente altrove, eternamente straniero, eternamente sconfitto.

Post correlati