Frantumare. Una prima proiezione di Microcosmo su Macrocosmo

Di Napoleone Dulcetti

Non userò alcun bisturi
preferisco l’ascia Longobarda trovata nel mio scantinato.
Mio nonno ci spaccava la legna, antenati sconosciuti carni e ossa.
Non userò la prosa, i versi,
solo colonne malferme di un tempio in rovina dedicato ad un dio che abbiamo sostituito.
Poggerò la mia idea su queste colonne consumate,
cosicché tutto possa crollare.

Denudare, morire, rinascere, riprovare

Così, mi spoglio, rimango solo
pesante come un sasso precipito negli abissi
mi lasco dietro la leggerezza la Salvezza.
Nascondo i miei genitali
Hai vergogna? Di cosa? Non ti ho forse visto già mille volte
mentre i secoli scorrevano?
E lì, prima di toccare il fondo
in uno specchio d’acqua
mi accusa il mio riflesso traballante. Non voglio morire
voglio nuotare di nuovo fra i liquidi e i lamenti di mamma
rinascere, riprovarci, venire alla luce bianca, abbracciare mia madre, calmarla, curarla.
Tocco il fondo sabbioso
graffio le profondità
trovo l’ascia longobarda, un sasso vulcanico, un’ossidiana
scaglio tutto contro la mia immagine
Mi frantumo, mi apro, mi disperdo sono i chicchi di una granata rossa che sporcano il piatto
Non sopporto chi mi giudica
vorrei avere un vortice di corvi sul palmo vuoto delle mie mani stanche
lanciarlo contro tutti coloro che detesto
gente morta che cammina sentenzia, condanna,
i maestrini del nulla.
C’è un esercito di formiche bianche, fra i miei capelli.
Le schiaccio, mi coloro di saggezza, quella che nessuno shampoo fa andare via.
Invecchio
I mastini del giudizio mi inseguono
Rimango impantanato sui fondali
Arrivano
Mi frantumano.

33 anni dopo Svegliarsi!

Collina. La pianura dorme,
arricciate nei cunicoli
le serpi.
È una gabbia felice questo cuscino,
lo inzuppano speranze, sogni, il sudore estivo,
il sangue schiacciato dal ventre delle zanzare.
Salto sul letto, resto dritto, nudo,
mi lascio andare, cado a terra,
sniffo il pavimento di casa, è pulito.
Scappare, correre, andarsene.
Dove vai papà?

Andarsene!

Partenza, treno numero 33, La Capitale del Nord.
La ghiaia scoppietta. C’è odore di urina.
Nuoto fra l’aria ferma, trovo posto. Ho caldo, vado in bagno.
Sfrego il viso con acqua tiepida, gratto così tanto da rimanere con il cervello fra le mani.
Lo palpo, lo scuoto, rimetto tutto al suo posto. Sono pronto, partire!
Sento le rotaie sulla mia schiena, escono scintille, le conto, mi perdo fra i numeri e la memoria arrugginita.
Uno studente piange, si allunga la sua testa inchiodata a terra.
Stringo fra i calli il mio intestino,
il mio destino, lo spremo. Andarsene!

Prima di salire sul treno

Serrando gli occhi ha singhiozzato Dove vai papà? Mio figlio
Il dolore è un proiettile spuntato, sfilaccia lentamente e penetra senza fendere, arriva fino al centro, la tachicardia spinge il cuore, lo sento accanto all’occhio sinistro, lo vedo bene il suo colore, è scuro, più macabro del nero.

Sulle rotaie scintillanti verso Nord

Si muovono verso sinistra
malfermi confini sgangherati
Il finestrino è uno schermo screpolato
Osservo, immobili e spenti
gli occhi accecati dalle luci in galleria.
Il mare lecca le coste
dagli scogli rotti mandano baci le sirene degli abissi
geloso Nettuno le afferra
le riporta nei suoi letti di corallo
le possiede e le punisce
sulla superfice blu, scoppiano
bolle piene di piacere, di dolore
capelli sfilacciati biondi e rossi.

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