Fin dalla prima ciocca corvina. Per Cutro e per tutte le stragi

Fin dalla prima ciocca corvina. Per Cutro e per tutte le stragi

Racconto di Domenico D’Agostino. Foto di Martino Ciano

Venne di corsa urlando “Habibi”, che nella sua lingua significava “amore”, o “tesoro”, o “mio caro”. Lo urlava quasi risentita, senza piangere, come a non voler dargli tutta la soddisfazione che si prova a essere chiamato così. Farah era solita tenere i lunghi e disordinati capelli in un’alta coda, ma quel pomeriggio aveva deciso che proprio non sarebbe valsa la pena. Quando Teo la raggiunse nei pressi del molo la vide, così, già piena di furia fin dalla prima ciocca corvina. E non la smetteva di urlare: “Habibi! Habibi!”.

Si erano trovati quasi nello stesso istante, sebbene a Teo sembrò che la sua amica fosse stata lì da sempre, una presenza eterna, giacché il dolore, quando è strazio per sé e per gli altri, pare rompere le catene del tempo per diventare un qualcosa che sa di infinito.

Avevano appena ricoperto l’ultimo arrivato con l’ennesimo lenzuolo. Era strano, pensò Teo, vedere per la prima volta un perfetto e candido lenzuolo da letto ricoprire interamente il corpo di una persona. Quella doveva essere la ventesima, o la trentesima, o forse erano già cinquanta. La corrente tempestosa, di una tempesta annunciata, li aveva colti a circa centocinquanta metri dalla riva, spezzando in due la solita bagnarola partita da ancora non si capiva dove. “Turchia” sentì dire Teo dall’indistinto chiacchiericcio delle forze dell’ordine. Già numerose, si impegnavano a tenere lontani i primi curiosi. Compito, in verità, per nulla difficile, visto l’incredulo sgomento di tutti. Ma persino dietro il peggiore raccapriccio non riesce a nascondersi completamente la curiosità.

Farah fu fermata subito. La trovò così, Teo, piena di furia fin dalla prima ciocca corvina, fra le braccia di sconosciuti in divisa che provavano a calmarla. E continuava a urlare “Habibi!” senza aggiungere altro.

«È una mia amica, per favore…» tentò Teo con un poliziotto che, con sua grande sorpresa, tentennò un secondo e lo lasciò passare oltre. Si ritrovò in un attimo alle sue spalle, e Farah riuscì ad accorgersi della sua presenza con la coda dell’occhio. Teo la aiutò a contrattare con l’uomo in divisa. Anche qui, scoprì che bastavano fin troppe poche parole, così semplici eppure così dolorose per la sua amica.

«C’è suo fratello» disse. E passarono ancora oltre, nel larghetto più a nord della spiaggia, dove fra i ciuffi di erba sabbiosa e le fraschette di canna stavano in fila, ordinate, quelle decine e decine di viandanti marini.

In un attimo fu al passo di Farah, e con lei dovette passare in rassegna quasi tutti quei corpi violacei e rigonfi ancora di acqua nei polmoni. Via un lenzuolo, e ricoprivano. Via un altro, e ricoprivano. E così ancora, forse per più di venti volte, finché Farah non strozzò in gola l’ultimo “Habibi”. Lo aveva, in qualche modo, riconosciuto prima ancora di sfilargli il tessuto bagnato dal viso. Gli si appiccicò addosso, e così rimase per molte ore.

Teo guardava la sua amica, le vide addosso tutti i dolori del mondo. Poi, spostò lo sguardo sul fratello e quasi si meravigliò di poterlo sostenere così a lungo. Soffiava ancora forte il vento.

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