Ferragosto in Calabria. Qualche anno fa…
Articolo di Gattonero
Era la seconda volta che scendevo più giù di Roma. La prima era stata con un collega di lavoro, con il quale avevamo programmato un giro d’Italia da completare in una decina di giorni di ferie. Tutto lungo la costa, tirrenica in discesa e jonica per risalire. Non eravamo arrivati in Calabria a causa del poco tempo disponibile. Da Sorrento avevamo tagliato per Foggia, e poi su fino a Tarvisio; capatina in Canton Ticino e rientro. A casa e al lavoro.
Il mezzo era una Fulvia coupé, di seconda mano, di zia Lancia, sorella di mamma Fiat; bellina d’aspetto ma scomodissima per un tour di quella portata. Gialla, per passare inosservati. Poco dopo l’avevo cambiata, e avevo optato per una “850 spyder”, sempre di casa Agnelli, sempre di seconda, forse di terza mano. Colore verdone scuro. Agosto, ferie, mare. Sempre in due, ma stavolta ero col mio secondo, forse terzo, amore; in seguito promosso a dolce metà in pianta stabile, più avanti ancora confermata come ‘mia signora’.
Giorno: quattordici. Con quella che era ormai la mia patella avevamo deciso di salire dalla costa marina a un paese all’interno. Per pura, incredibile, coincidenza, in quel paese abitavano i suoi genitori. Anzianotti, ma ancora in gamba. Si trattava di coprire una quindicina di chilometri, una strada fatta solo di curve. Non era asfaltata, e forse neppure sterrata, visto che le buche impedivano di capire su che suolo si stesse viaggiando. Ma buche non da campo di minigolf; erano voragini nel terreno, e non erano occasionalmente provocate da un diluvio recente: erano buche naturalissime, da catalogare come “patrimonio dell’umanità”, tanto erano espressione di un passato antidiluviano.
Non le avevo contate; facciamo, a occhio e croce, che fossero quindicimila, un migliaio a chilometro (ma vado per difetto): 14.999 le avevo evitate, in ordine sparso. Una no: combinazione, proprio la buca assassina.
Ricapitolo: quattordici agosto, coppa paraolio partita, in un paese semi-montano, che oltre a un bosco di pini (e ai cipressi del cimitero) aveva solo un palazzo diroccato, la vista di un panorama mozzafiato, il fresco della sera, il piccante dei cibi; credo che per vivere i suoi abitanti vendessero le pelli dei lupi, poiché altro di commerciabile non sembrava esserci… E neanche la consolazione di un “cosa vuoi di più dalla vita?”, visto che quell’amarognolo non era ancora salito agli onori degli spot.
Se ci fosse stato, più che a un amaro, avrei pensato a tre metri di corda e a un ramo d’albero robusto… La vettura infortunata era stata ricoverata nel garage del parroco, situato proprio sotto la canonica. Da cui, per tutta la notte tra il quattordici e il quindici, era salito un rosario di giaculatorie che aveva costretto il Destinatario a chiedere pietà. E forse a quelle devo il fatto che, nonostante il periodo infausto, il giorno dopo, appunto il quindici, il fratello del mio amore, ancora in pectore, era sceso alla marina con una specie di motorino assemblato con filo di ferro e spaghi, aveva trovato la coppa, ed era riuscito a sistemare la macchina.
Questa è una di quelle volte che uno si chiede perché gli esseri umani siano divisi in due sessi principali: se fossimo tutti unibisessuati, quella sarebbe stata l’occasione buona per chiedere al fratello di sposarmi al posto di sua sorella; che col cavolo sarebbe mai stata in grado di cambiare una coppa paraolio, il quindici di un agosto qualunque, in un qualunque altrove. Cielo, saremmo stati in due, visto che per quello che mi riguarda la coppa paraolio potrebbe essere nel cassetto portaoggetti; e anche lì avrei difficoltà a trovarla.