Epepe. Ferenc Karinthy e l’incomunicabile meccanicità
Recensione di Martino Ciano – già pubblicata su Satisfiction
Ci sono romanzi che sanno mettere in dubbio la logica, piegandola alla più cinica imprevedibilità. Epepe di Ferenc Karinthy è sicuramente uno di questi. Adelphi lo recupera dall’oblio in cui la storia della letteratura l’ha consegnato per decenni. Questo libro infatti è stato pubblicato nel 1970.
Apparso in Ungheria, madrepatria dell’autore, Epepe ha rischiato di rimanere sepolto sotto le macerie di quella guerra ideologica, che ha confinato ingiustamente la letteratura proveniente dall’altra parte della Cortina di Ferro. Senza tener conto che laddove le dittature imperano, l’arte vive le migliori Primavere.
Ma di cosa parla Epepe? Immaginate un uomo che o per sbaglio o per un tragico scherzo del destino si ritrova in una città sconosciuta, dove gli abitanti parlano una lingua incomprensibile e usano un alfabeto che richiama vagamente le rune gotiche. Aggiungete anche che il protagonista, Budai, è un linguista che nonostante i suoi sforzi non riesce a sbrogliare la matassa. Il suo unico appiglio è Epepe, ragazza misteriosa, che manovra l’ascensore dell’albergo nel quale il protagonista alloggia. L’impavido linguista riuscirà a tornare a casa? Leggete il romanzo e lo scoprirete. Soprattutto, tuffatevi in queste dense pagine e fate vostra l’ansia di Budai. Anche voi vi sentirete spaesati, incompresi, turbati e impotenti.
Ma al di là del romanzo, Karinthy ha scritto sicuramente una metafora sulla società dell’epoca non limitandosi solo alla situazione dell’area sovietica, ma anche a quella occidentale, democratica e capitalista. La capacità dell’autore ungherese è stata sicuramente quella di camuffare ogni elemento nella trama, nelle vicissitudini di Budai, nel suo sguardo indagatore. Ma in molti casi Karinthy è stato profetico.
In questa città, infatti, tutto è meccanico, ordinato. C’è una massa oceanica di persone che si muove in lungo e in largo. Non è possibile consultare un orologio. Il tempo è stato abolito ma questo non dona alle persone tranquillità, bensì, alimenta il nervosismo e la rabbia. In questa landa labirintica, infatti, bisogna fare la fila per ogni cosa e aspettare il proprio turno. Ma per Budai tutto diventa difficile, lui non riesce a comunicare e la folla piuttosto che aiutarlo lo respinge. Lo emargina.
In questa città sembra quasi che ognuno viva per se stesso, isolato e appartato. Sembra che ognuno parli la propria lingua. Anche quando Budai proverà a emettere sillabe sconclusionate nella speranza di farsi comprendere, il risultato sarà catastrofico.
Ebbene, amici lettori, quanti comportamenti del genere oggi sono all’ordine del giorno. La meccanicità è o non è il metro che misura la nostra vita? L’eterno presente in cui la società moderna si rigenera – assumendo quei contorni che già Debord seppe mettere in luce, ma questa è un’altra storia – non ci ha reso tutti individui spaesati? E soprattutto, nell’epoca dei mille sistemi di comunicazione riusciamo sempre a farci capire o sembriamo individui detentori di un proprio vocabolario e di un proprio alfabeto?
E ora anche a me sorge un dubbio. Questo libro è stato scritto quarantacinque anni fa o l’altro giorno?