Fari di Bretagna. Susy Zappa e “la storia dimenticata”
Recensione di Marco Ponzi
Se un anno fa non fossi stato invitato alla presentazione del libro “Fari di Bretagna” di Susy Zappa, Il Frangente editore, avrei potuto rammaricarmi di non esserci andato.
Non avrei potuto immaginare le storie che si tramandano relativamente ai fari della Bretagna e non sarei potuto venire a conoscenza di molte interessanti informazioni sulla costruzione, sulla tecnica e sulla vita nei fari. Sono cose a cui nessuno pensa mai, dando tutto per scontato ma il perché e il percome di quello che abbiamo intorno sono invece degni di attenzione.
Del resto, a chi può interessare la storia dei fari? Forse, oggi può risvegliare qualche interesse solo dal punto di vista turistico/paesaggistico perché viene venduta come un’esperienza gradevole, da cartolina adatta alle copertine dei libri romance, ma la vita nel faro non è proprio qualcosa di equiparabile a una vacanza.
Questo volume ci spiega in modo molto scorrevole e un po’ neutro, quasi con taglio manualistico, il mondo dei fari in quella zona della Francia.
I fari, lo sanno tutti, servono ai naviganti come punto di riferimento, per segnalare fondali bassi, secche, rocce, punti pericolosi; in poche parole, vedere un faro in lontananza rappresentava una sicurezza perché era un punto di riferimento ma, al tempo stesso, un segnale di pericolo. La stessa vita dei guardiani dei fari aveva un certo grado di avventura.
Vivere in un faro non è cosa da tutti: spesso questi sono posizionati su scogli in mezzo al mare, lo spazio interno è angusto e umido e le tempeste che lo scuotono non agevolano il sonno. In quelle zone le tempeste non sono semplici pioggerelle e il faro va mantenuto in funzione a tutti i costi. Non è certamente un lavoro per tutti quelli che pensano che essere un sorvegliante sia una passeggiata.
Da alcuni fari si esce attraverso porte posizionate a quattro metri di altezza dalla base, o si esce dalla lanterna, appesi a una fune che la collega a una nave, magari mentre soffiano venti gelidi e prepotenti.
Molti guardiani hanno perso la vita risucchiati dalle onde o sono stati vittime di malori che non hanno potuto essere curati a causa dell’isolamento e dell’impossibilità di comunicare. Altri sono periti nel tentativo di salvare vite.
La storia dei fari è antica: alcuni sono stati costruiti nel diciassettesimo secolo, distrutti e ricostruiti.
In origine erano dei segnalamenti poco efficienti e alimentati da fuochi che però garantivano una visibilità scarsa e che non riuscivano a evitare i naufragi.
Poi la tecnica si è evoluta e le lanterne sono diventate dei veri gioielli da preservare e, per consentire il perfetto funzionamento, ecco che si doveva affidare l’incarico a una persona fidata e scrupolosa che le pulisse con una manutenzione quotidiana.
Prima dell’avvento dell’automatizzazione dei fari, avvento che ha eliminato la necessità della presenza umana all’interno dell’edificio, il guardiano del faro era costretto a portare sacchi e sacchi di carbone in cima al faro, percorrendo centinaia di gradini; doveva vegliare le notti per assicurarsi che la lanterna funzionasse e spesso interveniva nei salvataggi dei naufraghi, mettendo a rischio la propria vita.
La vita del guardiano si svolgeva in solitaria, ma non era inusuale che la sua famiglia vivesse con lui.
Attorno ai fari di Bretagna circolano storie di misteri, leggende, racconti paurosi o di vita vissuta; questo libro restituisce appieno l’intento dell’autrice e la sua capacità di rendere vive persone e storie lontane nel tempo.
La vita nel faro come metafora di eroismo e caparbietà; la tenacia di resistere alla durezza della vita, alla furia degli elementi facendo del proprio lavoro una scuola, ricavandone un insegnamento universale.
E adesso mi è venuta voglia di fare un giro in Bretagna.