Fantasia melanesiana

Fantasia melanesiana

Racconto di Antonello Cristiano. In copertina “Bonegi Beach”, Torbenbrinker, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Era facile sotto il cielo basso, rupestre, di due mammelle, svuotare cogli occhi il cerchio della capanna, trovare nell’ombra le stuoie e le lische del pesce che morde le dita sparse a casaccio sotto il calcagno delle mie nove sorelle. Poi due ganci di bronzo appesero quelle mammelle troppo in alto, forse più in alto di quanto riuscirei a scagliare a mano nuda la noce di betel.

E le mie nove sorelle per il sacro divieto che sconfina fin nel sonno più oscuro separate da me come la carne dalla lisca, fui accolto nel bukumantula, ossia nella grande capanna dei giovani. Là, fra giochi di pelle e solletichi mai troppo seri, e percussioni di piccole catapulte fra paglia e zigrino, trascorsi beatamente la mia condizione di ulatile.

Allora nessuna sorveglianza pesava su di me, e le giostre d’amore dei giovani non erano fra i grandi della tribù che un divertito ammicco per cui le formiche si accampavano sul nostro viso.

Ora che invece l’arcigno fratello di mia madre, il mio genitore sulla pietra, recide e pesa i miei rami, la tribù vuole assorbirmi nel suo frusciante precetto. Pretende da me le penne simboliche e la voce tuonante, le formule precise come filo di coltello, e gli oggetti sacri ed il gesto calibrato.

Lo zio materno è divenuto la mia eredità assieme al mostro da decapitare. Si trattiene a lungo nella capanna col bianco. E l’acquavite che porta con sé gratta il palato come il tuono gratta la soglia del cielo. Lui mi cede mal volentieri la sua conoscenza. Stacca da sé gli usi e le pratiche con livido volto di invidia. Mentre il mio padre di seme è l’amico che può partire e tornare come un uccello fedele. È lui che mi ha insegnato la spinta piacevole, il palmo dell’arco sulla spalla della freccia, e ha diviso con me la sua noce di betel.

Io non sono mago né eroe. So che per essere eroe bisogna avere consumato il delitto. Dai corpi uniti del fratello e della sorella che fuggirono nella grotta dell’amore, fluisce ancora la sulumwoya, la menta pungente, quella che bollita a lungo nell’olio di cocco serve a scagliare su chiunque la seduzione affannosa.

Altri incantesimi restano, seppure sia disceso in un oblio irreparabile quello capace di far volare una canoa. L’unica arte che vorrei adesso compiere. Ma è meglio toccare il freddo dorso del mare piuttosto che il fumo del cielo: domattina calzerò un guanto di formiche di fuoco.

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