Tra abisso e speranza. “Falconer” di John Cheever

Tra abisso e speranza. “Falconer” di John Cheever

Recensione e foto di Marta Fanello. In copertina “Falconer” di John Cheever, edizione Feltrinelli

Non è facile parlare di John Cheever. Una vita in bilico tra alcolismo, redenzione, radici mancate e un Premio Pulitzer, per cui Cheever è eccesso, paura, rimorso, istinto, contraddizione, espiazione e autodistruzione: “Il problema è stato: troppo gin, troppo fumo, troppe cagate di tutti i tipi. Così mi preparo un cocktail e mi accendo una sigaretta.” (Una specie di solitudine). Ma, sopra ogni cosa, è onesta, inquieta ricerca di un senso, un senso che non trova e che, anche quando sembra passargli accanto, tanto da poterlo toccare, gli sfugge ancora di mano. Ma Cheever non abbandona mai la sua ricerca, è in questa mancata rassegnazione, Cheever è speranza.

Nel suo romanzo Falconer (1977, pochi anni dopo aver scoperto di soffrire di un edema polmonare che lo avrebbe ucciso), John Cheever sembra condensare ogni cosa, farne metafora di un senso che solo alla fine di una vita può inaspettatamente disvelarsi. Ezekiel Farragut è un insegnante medio borghese, un padre di famiglia, un marito come tanti il cui universi si sgretola nel momento in cui viene arrestato, processato, condannato per fratricidio. È l’unico fatto che conti. Non ci interessano le circostanze, le attenuanti, il profilo psicologico dell’assassino. Nell’ordine delle cose, importa solo che Farragut sia passato dall’essere un rispettabile borghesuccio al detenuto numero 734-508-32.

Il detenuto 734-508-32. Non è un ex-Farragut, ma il solito vecchio Farragut alle prese con una nuova quotidianità, scandita dagli orario e dalle abitudini del carcere di Falconer, alle prese con la tossicodipendenza e un’omosessualità latente da sempre ma mai legittimata a se stesso, alle prese con i compagni di prigionia, individui che oscillano tra violenza, carnalità malsana, impeti di tenerezza, ricordi impregnati da vuoti d’affetto e relazioni con donne a loro volta ferite e irrisolte, pronte ad affondare la lama in ferite inguaribili. Uomini brutali e insieme pronti ad accorrere come bambini in festa per farsi fotografare di fianco a un albero di Natale.

Alle prese con tutto questo, Farragut viene a contatto la vastità della propria mente, percepisce i limiti in cui ha vissuto la propria vita fino al giorno dell’arresto. “Tutti i detenuti, ovviamente, soffrono di una perdita d’identità, ma quel tocco leggero mi ha spalancato l’immagine terrificante dell’abisso della mia alienazione”. È a Falconer, tra mura all’apparenza invalicabili e porte sprangate, laddove tutto è sfumato, luce e ombra, libertà e prigionia, bene e male, giusto e sbagliato, sesso e amore, che la ricerca di un senso, dell’equilibrio tra atto e potenza, ciò che era e ciò che avrebbe potuto essere, può prendere forma.

Non è Falconer la vera prigione, ma la vita inconoscibile che intrappolava Farragut: quotidianità, inerzia, incapacità di conoscersi, finzione, passività. Risentimento, d cui tutto scaturisce, verso un padre che avrebbe voluto abortirlo, un fratello che non fa che ricordarglielo. E forse, in questa storia il primo atto di liberazione è il fratricidio, l’assassinio di un concetto troppo a lungo reiterato e represso, un rito d’iniziazione, un lasciapassare verso un percorso d’affrancamento.

“Perché devi sapere che in tutti i viaggi che noi facciamo, anche nei più stupidi, alla fine c’è sempre qualcosa di buono, come per esempio un sacco d’oro o una fonte di giovinezza o un oceano o un fiume che nessuno aveva mai visto o almeno una gran bistecca con una patata al forno. Deve esserci per forza qualcosa di buono al termine di un qualunque viaggio…”

Cheever diceva: Non posso scrivere senza lettori. È come un bacio: non te lo puoi dare da solo. Ed è grazie al lettore che Farragut si affranca: consegnandoci i suoi pensieri, col suo stile metamorfico, diretto, fatto di incastri. E infine evade da Falconer e dal sé passato, oppresso, irrisolto, con un finale che mette i brividi: “Rallegrati, pensò, rallegrati.”

 

 

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