Fa’ in fretta…
Racconto di Antonella Perrotta
È tardi. Mannaggia. Dovevo rientrare per l’una.
“Non un minuto più tardi” ha detto la mamma. “Altrimenti, la prossima volta te lo scordi di uscire il sabato sera!” E io le ho promesso che sarei rientrata per l’una. Ma il tempo è trascorso velocemente alla festa di compleanno di Marta.
Io, Marta, Monica, Valeria, siamo una squadra invincibile. Siamo amiche-sorelle. Quando stiamo insieme, il mondo intorno sembra scomparire, pure le urla dei miei genitori che, non ho ancora capito il perché, si ostinano a vivere nella stessa casa, anche se non si amano più. Loro procedono come due rette che si sono separate e non ritroveranno un punto d’incontro.
Ma io ho riso tanto stasera. E chi se ne frega se loro, invece, hanno continuato a litigare, come sempre. Chi se ne frega se mio padre ha un’amante più giovane di quindici anni e mia madre l’ha scoperto, ma fa finta di non averlo scoperto, se i soldi a casa non bastano mai, se mio fratello non potrà andare all’università e se stamattina a scuola ho preso quattro e mezzo al compito d’italiano.
Chi se ne frega. Io ho riso.
Mamma, sicuramente, mi sta aspettando sveglia. In piedi, dietro il balcone del soggiorno, fumando sigarette come una turca. Da quando papà le mette le corna, fuma molto di più, anche se ha sempre la tosse. Dice che smetterà quando ritroverà la sua serenità, ma io non la ricordo mai serena, mia madre. Lo testimonia il fatto che le è venuta l’ansia, pur sapendo che avrei trascorso la serata da Marta e che suo padre mi avrebbe riaccompagnato a casa. Che cosa c’è da preoccuparsi, mi chiedo. Ma mamma e l’ansia sono una cosa sola. E, quindi, anche mamma e le sigarette. Sono certa che, non appena metterò piede in casa, attaccherà con una delle sue romanzine sull’importanza di mantenere i patti. So già cosa mi dirà e come lo dirà. Film già visto. Disco già ascoltato. Ma chi se ne frega di ‘sto vecchio film e di ‘sto disco stonato. Tanto, domattina avrà dimenticato. Ritornerà ai suoi problemi di sempre: corna e soldi.
Il padre di Marta, invece, la promessa di accompagnarci a casa l’ha mantenuta. E, perciò, su questo mamma non avrà niente da obiettare. Ci ha caricato tutte sulla Mercedes. La desidera tanto anche papà, una Mercedes, ma non potrà comprarla mai, neanche all’usato sicuro.
È simpatico il padre di Marta. Dice di essere un imprenditore, ma io non ho capito bene che impresa abbia. So soltanto che con me è particolarmente gentile e premuroso, più che con Monica e Valeria. “Chiamami Franco” mi ha sempre detto. All’inizio, non riuscivo a dargli del tu, ma adesso mi viene naturale. Credo di stargli simpatica perché mi dà sempre un buffetto
sulle guance e spesso, quando fa una battuta, mi fa l’occhiolino. E poi si fa chiamare per nome soltanto da me. Anche stasera, ad esempio, ha accompagnato prima Monica e Valeria e me per ultima. “Così, scherziamo un po’, tu ed io” mi ha detto e mi ha guardato in modo complice. Ed io ho riso perché Franco conosce un sacco di barzellette, anche quelle un po’ sporche, e si diverte con noi come se avesse tredici anni anche lui.
Marta lo dice sempre che suo padre è speciale. È come se fosse un amico, non come il mio, invece, che sta sempre nervoso. Papà dice che, se avesse i soldi del padre di Marta, racconterebbe barzellette tutto il giorno anche lui. Ma io non gli credo. Non riesco a immaginarlo, mio padre, che racconta barzellette, soprattutto quelle un po’ sporche. E neanche che manda i video divertenti su WhatsApp come fa Franco.
Stasera ho riso tanto anche in macchina, mentre Franco ci riportava a casa. Noi amiche- sorelle abbiamo inventato un linguaggio tutto nostro. L’abbiamo usato anche con lui, sfidandolo a capire cosa ci dicevamo. Che ridere! Soprattutto quando gli abbiamo dato dello stronzo e lui ha pensato che gli stessimo dicendo che era affascinante e ci ha ringraziato tutte. Quanto abbiamo riso!
Casa di Valeria non è distante da quella di Marta. Dieci minuti e siamo già sotto la villetta bifamiliare in cui vive. Il pianterreno è illuminato. Qualcuno la sta aspettando sveglio, proprio come mia madre. “A domani” ci salutiamo. È una promessa. È un’aspettativa. È naturale. Domani ci rivedremo. Come sempre. A scuola. Alle otto e un quarto in punto.
È il turno di Monica. Anche lei scende di fronte casa. Franco aspetta che qualcuno le apri il portone d’ingresso della palazzina in cui vive. Resta fermo lì dinanzi fino a quando non la vede scomparire nell’atrio. Lei ci saluta con la mano e ride. “A domani.”
Adesso siamo rimasti soli, Franco ed io. Sono passata sul sedile anteriore, al posto di Monica. Aggancio la cintura. La strada mi sfila davanti, falciata dalle luci della Mercedes. Riesco a sentire il profumo buono del suo dopobarba. Vedo le sue mani curate che accarezzano il volante. Sento la sua voce farsi suadente mentre mi dice: “Lisa, è un nome bellissimo. Proprio come te.”
“Cosa c’è da preoccuparsi?” mi chiedo. E sorrido serena a Franco, il padre della mia amica Marta, che mi sta accompagnando a casa.
L’auto lascia la strada principale. S’infila in una traversa scarsamente illuminata e dall’asfalto malandato. È una strada cieca. Solo alberi intorno e qualche capannone abbandonato. Lo so perché ci andavo sempre in bicicletta quando ero ancora bambina. Da grande, non l’ho più fatta, questa strada.
Se mi sentisse mia madre, adesso, definirmi grande, si farebbe una risata delle sue, di quelle che non hanno niente di allegro, ma sanno di amaro come lo sciroppo per la tosse. Ma io, a tredici anni, mi ci sento, grande, se non altro perché mi carico tutti i giorni i problemi dei grandi e quelli di mia madre in primis.
Franco procede convinto per questa strada cieca e buia. Penso che a quest’ora sia un po’ stanco e abbia sbagliato direzione senza rendersene conto. “Perché hai girato per di qua? Non c’è nulla” dico.
“Scusami. Un attimo solo. Dovrei fare un bisognino. Anche ai padri scappa di farla qualche volta” mi risponde, ridendo.
Rido anch’io. Non c’è nulla da preoccuparsi. Anche a mio padre capita. Di fermarsi e farla in campagna, dico, e, qui, è come se lo fosse, campagna. La strada è finita. L’auto si ferma, ma Franco non scende. Lo guardo interrogativa. Lui resta impassibile, le mani fisse sul volante. Inizio a preoccuparmi, ma non per me. Per lui, piuttosto. “Ti senti male?” chiedo.
“No, Lisa cara” mi risponde. Impassibile. Le mani sempre sul volante.
Poi, si volta verso me. Il suo sguardo non è più allegro come un attimo fa. Ha perso anche quel non so che di premuroso e rassicurante. Si è fatto serio, quasi cupo.
È un attimo. Mi ritrovo avvinghiata dalle sue braccia. Non pensavo fosse così forte Franco. A vederlo, non l’avrei mai detto e, invece, riesco a sentire la potenza nei muscoli, la forza nei polsi e nelle mani che mi cingono tutta, mentre me ne sto seduta immobile sul sedile anteriore dell’auto. Riesco a sganciare la cintura di sicurezza. Tento di portare il busto in avanti per respingere con più forza l’abbraccio di Franco. Sono bloccata. Non riesco a liberarmi dalla sua morsa. Allora, agito le gambe e provo a scalciare. Ma lui è tutto su di me. Sono in trappola.
Sono confusa. Anzi, meglio dire sconcertata. Cosa sta succedendo? Perché? Perché proprio lui, il padre di Marta? Perché io? Che cosa avrò fatto per fargli credere che volessi questo? Cosa?
Provo a urlare, ma non mi esce la voce. Perché non mi esce la voce? Perché non riesco a pronunciare neanche poche sillabe? “A-iu-to!”
Aiuto, aiuto, aiuto! Dillo, Lisa! Urlalo! Forse, qualcuno ti sentirà!
Sì, forse, qualcuno mi sentirebbe se solo riuscissi a gridare. Qualcuno che guida col finestrino aperto sulla strada principale, magari. Qualcuno che ha portato fuori il cane. In fondo, fa caldo. Qualcuno potrebbe esserci qui vicino. Sì, qualcuno …
“A-iu-to!” Ma è solo un lamento, il mio. A malapena sono riuscita a udirlo io.
L’ha sentito anche Franco, però, che mi mette la mano sulla bocca, impedendomi di respirare. E allora, io ansimo e ansima pure lui, mentre si agita su di me, sollevandomi la gonna
nuova con i fiori rossi che ho indossato per il compleanno di Marta. Sento qualcosa che si rompe. È la mia maglietta, forse. O, forse, i miei slip. O, forse, sono io a rompermi.
Non lo so, non lo so… Non so più niente! So soltanto che ho male dappertutto, ma continuo ad agitarmi. Se non altro per fargli capire – semmai, mi avesse frainteso – che io non lo voglio tutto questo. Non le voglio sentire le sue mani che mi palpano con foga dappertutto. Certo che no. Riesco a mordergli una mano e, finalmente, grido: “Noooo!”
Questa volta la voce mi viene fuori forte e chiara, disperata. Adesso, non puoi pensare che io sia consenziente. No, no, no! L’ho appena gridato, stronzo! Perché continui, allora? Perché? Sei bruto e brutto. Sei un mostro. Non hai un cuore. Come fai a vivere sapendo di non avere un cuore? Magari, tu non sai di non averlo, non te ne rendi conto. Allora, sei malato e ti devi curare. Ma, forse, sei semplicemente un vecchio porco stronzo. Sì, questo sei: un vecchio porco stronzo. E, allora, devi pagare. E pagherai. Non so come, ma pagherai. Lo giuro solennemente in questo momento. Mentre ho male perché tu mi stai facendo male. E ho freddo. E ho paura perché tu me l’hai messa, la paura.
Non riesco più a lottare con te, mostro. Sto cedendo, ma non significa che mi piaccia ciò che mi stai facendo. Non t’illudere: non mi piace neanche un po’.
Te ne accorgi che sto cedendo e levi la mano dalla mia bocca. Prendo aria, butto il collo indietro, chiudo gli occhi.
“Fa’ in fretta, stronzo… Fa’ in fretta… Mamma mi aspetta.”
“Il suo nome è Franco Giraldi. Abita in una villa con giardino in via dei Salici al civico 10. Ho ancora addosso i segni delle sue dita, vede? Mi fanno schifo. In ospedale, mi hanno assicurato che se ne andranno presto. Anche la mamma ha detto che se ne andranno. Ma io ho paura, sa? Tanta paura, anche adesso, e non so se andrà via insieme ai lividi. Commissario, lei che dice? Se ne andrà, vero? Mi dica di sì… Le ho raccontato tutto perché voglio provare a dimenticarla, questa paura, e tornare a ridere con le mie amiche. Perciò, commissario, la prego: lo vada a prendere. Lo prenda, commissario. Ora.”
I reati di violenza sessuale sono stati inquadrati nella categoria dei “Delitti contro la libertà personale” soltanto nel 1996. Prima di allora, si ritenevano “Delitti contro la moralità e il buon costume”. Con la riforma, si è riconosciuto che l’atto sessuale involge la sfera delle libertà della persona e non costituisce una mera questione morale. Ma la strada verso la comprensione e la tutela è ancora lunga.