Esiste un paese normale?
Articolo e foto di Fabio Pietrosanti
Sempre più spesso, affaccendati nel nostro quotidiano, ma con l’orecchio sempre connesso al media più prossimo, l’erede del tubo catodico, sentiamo parlare, del nostro come di un “paese alla frutta”. In realtà più che pensare ad un cesto colmo di pomi e chicchi colorati, potremmo tranquillamente dire che questo paese si è trasformato in una permanente “sagra della ricerca della normalità”.
È indubbio che, nel lessico mediatico, si faccia costantemente riferimento ad una ipotetica “normalità”, dalla quale lo stivale tricolore sarebbe ancora lontano. Il che sottintende, sorridendo alla tesi dell’imbonitore da salotto televisivo di turno, che una normalità “oggettiva” esista. Non solo, ma sarebbe a portata di mano se solo la si volesse cogliere. Ora, senza entrare nel labirinto delle varie accezioni del termine, appare del tutto evidente, anche all’osservatore meno attento e qualificato, che lo spazio compreso tra la prima consonante e l’ultima vocale del termine “normale” vada ben oltre le tre sillabe e le sette lettere di cui è composto.
Normale è qualcosa di profondamente diverso dal concetto elementare che i più, per semplificazione, per fretta, superficialità o per ignoranza, premiano. O forse, semplicemente non esiste una normalità che possa considerarsi tale “urbi et orbi”. Del resto, appare fin troppo facile sostenere che un paese nel quale si renda necessario sottolineare a gran voce che l’amore non debba sottostare alle regole della “non contaminazione” dei generi, non sia un paese normale. Che in un paese “normale”, le minoranze non dovrebbero sudare le proverbiali sette camicie per vedere affermati diritti e principi che sono alla base del più banale buon senso. Come se fosse necessario sostenere che l’acqua bollente brucia la pelle.
Che un paese “normale” non tollererebbe conflitti di interesse tanto grandi quanto duraturi. Perché, se una parte beneficia di quei conflitti, l’altra beneficia della bandiera della lotta contro quei conflitti. Entrambe intenzionate a non risolverli, il primo per evidenti interessi, il secondo per poter mantenere l’asta di quella bandiera e sventolarla, alla bisogna, come un ex voto. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”.
L’illuminante frase di Filippo Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo” fotografa quello che si trasformerà, nel tempo, in uno stato permanente. Tutti pronti a gridare, con artefatto sdegno, “al lupo, al lupo”, senza imbracciare mai un fucile per scacciarlo, quel lupo. Altro che “paese normale”. Del resto, nella comune accezione del termine, non può considerarsi un paese “normale” quello nel quale una intera generazione portatrice di assoluta deficienza di capacità genitoriale, condividendo con i figli spazi virtuali costruiti non per donare libertà, ma per appropriarsi di dati, gusti, preferenze, idee, diventano anch’essi minuscole rotelle di macro-ingranaggi troppo grandi per essere anche solo percepiti.
Una caduta in una dimensione artefatta, nella quale valori, principi, etica, buon senso, giustizia, finiscono per essere trasformati in un frullato, che li rende irriconoscibili, dalla medesima centrifuga che trova il suo motore in inesplicabili algoritmi. Ed ecco allora orde di giovanissimi macchiarsi di reati odiosi, apparentemente per scelta responsabile, in realtà per aver perso completamente di vista cosa sia giusto e cosa no. Sono gli stessi che battono i piedi per un “no” al quale sono disabituati, e non per loro colpa atavica. Valori semplici come il rispetto, l’altruismo, il sacrificio, diventano chimere, al tempo dei like, al tempo del tutto e subito.
Non impegno, applicazione, sudore, ma visualizzazioni, la scorciatoia per un benessere tanto dorato quanto effimero. Perché prima o poi arriverà un nuovo algoritmo invisibile, che rimescolerà le carte in tavola durante la partita. Lasciando il re nudo. In questo parossismo, fatto di tutto e fatto di niente, il famoso “muretto”, quello scaldato dai jeans contenenti le chiappe dei ragazzi degli anni ’60, ’70, ’80, assume dignità di “cosa normale”. Fiumi di parole spese alla ricerca di una presunta “normalità”, che sempre più assume i connotati dell’Araba Fenice, per farci capire che forse, quando pensavamo di avere tutto e ci sentivamo padroni del mondo, non eravamo poi così lontani dal vero; e che forse aveva ragione Tomasi di Lampedusa.