Eroina
Racconto di Antonella Perrotta
In una stanza buia, dall’aria stagnante, consumavi le giornate su un divano consunto che fungeva da tomba. Conati di vomito, a volte, erano gli unici segni di vita, mentre le pupille si facevano sempre più strette, teste di spillo che nulla guardavano e nulla vedevano.
Tua madre faceva avanti e indietro dalla cucina. Ti gettava uno sguardo e subito lo ritraeva. Si decideva ad avvicinarsi, controllava il tuo petto per accertarsi che respirassi ancora, mentre tu con gli occhi chiusi, forse la sentivi, forse no. Lasciava per te una pietanza sul tavolo, chissà se e quando l’avresti mangiata. Tornava indietro, mormorando parole tra la rabbia e la pena e i sensi di colpa ché era anche sua, la mancanza, se quel figlio si era ridotto così. Soltanto mamma di latte aveva saputo essere, il seno aveva saputo porgerti e quel piatto sul tavolo.
Ma cos’altro poteva fare? La sorte ti aveva condannato, prima ancora che condannassi te stesso. O era vero il contrario.
La morte era entrata nella tua casa come una maledizione e ti aveva scippato chi amavi. “Padre, dove sei finito? E tu, fratello mio?” urlavi senza voce, mentre il nero delle vesti rimaneva e la povertà di una tavola e la disperazione di una madre vedova e una cartella con libri e quaderni che aprivi svogliatamente.
Occhi secchi ti restavano e carne che gemeva. Sopravvivere, non vivere, ti toccava, ché non c’era più gioia sopportabile e pure il dolore era diventato abitudine.
E le braccia le coprivi, le mani le coprivi, le gambe le coprivi, buco dopo buco nelle vene bruciate, ché la pietà non esiste e ribrezzo facevi a te stesso prima che agli altri. Ma quale liberazione contenevano quei buchi? La Terra non poteva capire, stava girata dall’altra parte, quella giusta che volgeva al sole che nasce, muore ma poi rinasce sempre. Il tuo pianeta era differente, soltanto tu lo conoscevi, tu l’avevi scoperto. Quante, e quanto immense, le galassie della mente e dello spirito? Il tuo pianeta non aveva nome, non ammirava albe e tramonti, era avvolto dall’oscurità, salvo qualche punto di fuga che fuga non era, girava in tondo e ritornava indietro.
Ma di cosa si alimentava il tuo petto, di cosa i tuoi occhi, di cosa la tua mente?
“Sono in un campo di lucciole a parlare col vento”, dicevi. “Lì, i miei demoni tacciono.” E, poi, sorridevi, di un sorriso ebete. E chiudevi gli occhi, ché tanto, intorno, non avevi nulla da guardare. Neanche tua madre che si tirava i capelli e si raschiava la faccia e sciorinava preghiere e confessava peccati che non aveva commesso.
Ma ti alzasti dalla tua stessa tomba con un colpo di reni, mentre tua madre ringraziava il Signore e tu la sfottevi, ché nessuno ha pietà di te e Cristo non è in cielo e nemmeno fra noi, ma sta dentro di noi, e non va pregato, ma soltanto ascoltato.
Sei nato due volte e di una soltanto ricordi.
E a quei demoni, che mai sono morti, ora, sorridi come a un amico con cui hai fatto pace.
E quel tuo pianeta, che mai ha smesso di girare intorno, ora, sta lontano anni luce.
E la voce di tua madre è diventata carezza.
E le tue braccia, le tue mani, le tue gambe dilaniate mostrano al sole la loro forza.
E i tuoi occhi hanno imparato a piangere e la gola a urlare.
Le stagioni s’inseguono, mese dopo mese, alba dopo tramonto. Ecco, è arrivato maggio e le lucciole brillano su un campo di sterpi vicino al mare. Ne fai posare una sul palmo della mano. Non è mai stata così vicina. Non è mai stata così vera.